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Giudizio critico su

La notte dell'Antigone. In morte di Josif Stalin
di Franco Celenza

Disamina dell'opera a cura della redazione di Liminateatri, nell'ambito della collaborazione tra la Rivista e il Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea

Nota critica di Carlo Dilonardo

La vicenda è riferita ai primi di marzo del 1953, anno della morte di Stalin. L’autore racconta dei fatti oscuri relativi alla morte del “gensek”, il quale pare sia stato vittima di una congiura ordita ai suoi danni dai medici del Cremlino che simularono un’emorragia celebrale. Franco Celenza rileva le ultime ore della vita del politico russo anche attraverso una figura mitica come quella di Antigone e la presenza di costei crea due ambienti in cui è divisa la scena: una zona di fondo in cui “vivono” ombre e una di proscenio in cui i personaggi “vivono” la loro vita.
Nella prima parte, la più corposa, Stalin si confronta con Nadia, moglie di suo figlio, con la quale ha un durissimo scontro dovuto alla richiesta di lei di far liberare un uomo deportato la notte prima a causa delle sue idee non conformi al regime.
Nadia affronta il suocero con parole molto dure, infatti pur essendo una parente, critica aspramente il suocero che, secondo lei, ha soltanto illuso il popolo: “Non vedo la libertà della mia gente. Non è più libera di prima”. Il dittatore russo continua per la sua strada contro “le teste di pietra” ed è impassibile di fronte alle richieste della donna. Nel secondo atto si consuma il famoso complotto nei confronti di Stalin.
Il testo di Celenza induce qualche riflessione. Al di là delle notizie di valore storico riportate, il copione a mio avviso sfugge a delle peculiarità basilari di una drammaturgia. Sono assenti o poco curati, riferimenti specifici relativi ai personaggi, una notevole carenza di didascalie non consente una analisi chiara del testo. Conosciamo benissimo le potenzialità che un testo drammaturgico può avere nelle mani di un regista o nel corpo di un bravo attore ma è anche vero che un buon testo deve avere dei guard rail forniti prima di tutto dall’autore. Se il testo è preventivamente scritto per la scena, come nel caso in analisi, ci sembra opportuno rilevare che questo aspetto è stato un po’ trascurato. I personaggi che vivono la scena hanno una loro ragion d’essere anche con i loro abiti, con le loro caratteristiche, con i loro caratteri e le loro battute vanno “dette” e l’attore non può fare affidamento solo su di sè o sul regista per “re-citarle”, proprio per evitare di trascurare l’autore. Si può essere d’accordo sul fatto che la scelta spetta a chi lo porta in scena, ma anche l’autore non può scrivere un testo privo di riferimenti in tal senso, proprio perché non tutto può essere rappresentato. In conclusione, il testo di Franco Celenza con maggiori indicazioni drammaturgiche e, soprattutto, sceniche può essere senz’altro fonte di una messa in scena di buon valore storico.