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Trent'anni di Fortezza: un'utopia concreta
Conversazione con Armando Punzo

di Letizia Bernazza

 


foto di Alessandra Siotto

 

Ho un poster nel mio studio. È quello de La Prigione della Compagnia della Fortezza. Da quando Armando Punzo e Cinzia de Felice (un punto di riferimento fondamentale per l'attività del gruppo insieme al regista) me lo regalarono nel lontano 1997, lo custodisco con cura ed è sotto i miei occhi ogni giorno. Centrato su una parete bianca, mi ricorda costantemente l'incontro con un'esperienza (quella della Fortezza, appunto), che ritengo ancora oggi fondamentale per la mia vita personale e per il mio percorso di critica e di studiosa di teatro.
Quella piattaforma lignea inclinata di venti gradi e allestita nel cortile del carcere consacrato alle ore d'aria, viene abitata da tanti detenuti-attori a torso nudo che - seppure nella ‘fissità' del poster, ma non per me che ho avuto il privilegio di essere allora una spettatrice-partecipante e sicuramente per tanti altri spettatori-spettatrici - esprimono chiaramente l'energia sottesa alle azioni fisiche degli interpreti: i loro sguardi e i loro corpi contratti dalla fatica di corse, flessioni e salti interminabili hanno il potere di non scadere mai in un sentimentalismo scontato e che, invece, compie la missione ‘catartica' di raggiungere la saldatura profonda tra realtà e finzione.


Sono passati tanti anni da allora. La ricerca di Armando Punzo è andata avanti con coerenza e con una tenace sperimentazione quotidiana sino ad oggi, portando il regista non solo a ribadire con costanza l'idea di non rinchiudere il percorso della Compagnia della Fortezza entro le ‘categorie' di ‘teatro in carcere' o di ‘teatro sociale', ma soprattutto dimostrando <<come il teatro sia permeabile a ogni forma di contaminazione possibile, finendo per esplorare ambiti inusitati e spiazzanti, mescolando saperi, creando linguaggi nuovi e marcando in modo indelebile il concetto stesso di ‘arte'>>. Si ‘forzano' dunque i limiti stessi del teatro per andare oltre i confini del nostro vivere e del nostro agire quotidiano, immaginando un teatro che vada sempre al di là già fatto e del già precostituito. <<Sono arrivato mille volte ad accarezzare l'idea di andare via, ma mentre ci pensavo>>, dichiara Punzo, <<stavo già facendo la salita per varcare il cancello ed entrare>>. Evidentemente, la <<bellezza si nutre di bellezza>> ed arrivare al cuore delle persone che <<diventeranno esse stesse opere d'arte, generando a loro volta spazi di pensiero all'interno dei quali albergheranno le loro anime insieme a quella dell'artista che l'ha generata>> rimane la priorità del regista. E Borges è un compagno di viaggio ideale per i Trent'anni di Fortezza. Borges conduce il regista, e di conseguenza gli attori, verso situazioni extra-ordinarie in cui ciascuno trasforma l'esistenza ‘normale' in una mutazione che può condurre verso una felicità possibile e praticabile.

Trent'anni di Fortezza è il titolo del progetto (a cura di Cinzia de Felice) che suggella il percorso della Compagnia della Fortezza. Tre decenni di indefessa attività svolta con rigore, con coerenza e con un'instancabile voglia di resistere. Fortezza allora non richiama soltanto la Fortezza Medicea di Volterra al cui interno c'è il carcere dove Armando Punzo ha iniziato il suo lavoro nel 1988, ma anche la volontà e l'energia messe al servizio di una comunità con l'idea fondamentale di <<creare un nuovo genere, un nuovo modo di immaginare e fare il teatro>>. Oggi, se dovessi fare un bilancio di questa esperienza, come la riassumeresti in poche parole?

Non ho mai pensato al tempo trascorso all'interno del Carcere di Volterra con la Compagnia della Fortezza. Ci ho pensato per la prima volta in occasione di questo anniversario e mi sono reso conto che per trent'anni sono entrato in quella stanza ogni giorno. Mi sono visto da fuori e ho giudicato tutto questo come una necessità forte che ritengo non sia possibile soltanto per la mia volontà: è come se fosse un'idea più grande di me, un'idea a cui io lavoro ma che fondamentalmente lavora in me. È come se fossi al servizio di qualcosa più grande di me. Io e non solo io, ma anche tutte le persone che collaborano con noi. Tirare le somme mi sembra un po' difficile in questo momento. Credo, piuttosto, di dover andare ancora avanti. Trent'anni sono tanti, è vero, eppure mi sento di non essere arrivato da nessuna parte. C'è tantissimo ancora da poter fare e da fare. Sono sicuro che l'esperienza all'interno del carcere sia diventata un centro che è situato all'interno del corpo umano, dell'uomo, ed è un centro veramente deputato all'apertura, alla sensibilità, alla capacità di avere uno sguardo diverso e di riuscire a guardare dove non guardano gli altri: all'amore, all'apertura verso il mondo intero, alla curiosità, all'intelligenza. E anche, forse, all'attenzione per chi sembra non comprenderti, alla compassione per chi sembra non accettare tutto questo. La nostra esperienza è come se si fosse posta fuori, ma fondamentalmente l'origine è sempre dentro di noi. Tutto è dentro di noi e noi siamo questa possibilità.

Ci siamo lasciati poco più di un anno fa con una nostra conversazione su Liminateatri.it ( http://www.liminateatri.it/ConversazioneconArmandoPunzo.htm ). Ci eravamo confrontati sullo spettacolo Le parole lievi. Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato , ispirato all'opera di Jorge Luis Borges nell'ambito del Progetto Hybris . A Volterra quest'anno presenti Beatitudo : è sempre Borges il comune denominatore. L'opera dell'autore argentino sovverte certezze e <<sospende>> le possibilità fattibili dell'abitare un Mondo in cui tutto è governato da un agire fondato su un <<senso che sfugge>> e che, tuttavia, diventa il faro di una ricerca e di un Teatro che vogliono <<arginare la vita che dilaga in noi senza nessun freno e… che si insinua nelle pieghe della nostra esistenza>>. Qual è il passaggio dalla hybris alla beatitudo ?

Beatitudo è la conclusione di due anni di lavoro su Borges, anche se avevo cominciato a leggere le sue opere già durante Dopo la Tempesta , lo spettacolo su Shakespeare. Borges è stato il mio compagno di viaggio e mi ha aiutato, sostenuto, nelle scelte drammaturgiche che ho fatto su Shakespeare. Beatitudo è la parte finale di questi due anni. Le parole lievi è stato il primo studio. Beatitudo è una ricerca sulla felicità. Credo sempre di più che dobbiamo passare - ed è una questione che va pensata nell'ordine di migliaia e migliaia di anni - dall' homo sapiens all' homo felix . Non possiamo pensare di restare ciò che siamo. Sono convinto che c'è una parte all'interno degli esseri umani - che si manifesta in alcuni di noi, in alcune persone - che è quella di andare oltre ciò che noi pensiamo di essere. Sebbene Shakespeare sia un grande poeta, un grande drammaturgo, un grande artista, è come se ci dicesse che noi siamo quelli e che non possiamo aspirare ad altro. Borges, al contrario, offre nei suoi percorsi letterari la possibilità di trovare altro. Ho bisogno di pensare in questi termini e la mia non è una fuga, ne sono consapevole. Non è una fuga dalla realtà. Si tratta, piuttosto, di un modo pratico per mettere in crisi ciò che pensiamo sia la realtà. La mia è una pratica quotidiana, lucida, che fa affidamento all'intelligenza, alle potenzialità migliori dell'essere umano per metterlo in crisi ed accogliere il suo profondo bisogno di altro. Hybris è un progetto, basato su questo, sul fatto che noi veniamo da un cultura, quella greca, occidentale, dove c'è un senso del limite estremo e dove la tracotanza e l'essere tracotanti, vengono sanciti come una punizione, un male. Si dice che questo sia per motivi sociali, per non avere guerre civili… Secondo me si tratta di una scusa politica, di una lettura politica, della hybris . Le tragedie che ci sono state tramandate sono popolate da personaggi che non devono rischiare, altrimenti vengono puniti ferocemente, con la morte, dagli dei.


foto di Stefano Vaja

Cosa vuol dire per te <<utopia concreta>>, riferita al lavoro teatrale portato avanti con il gruppo di detenuti-attori e, soprattutto, come rendi fattibile l'urgenza e la necessità di aprire nuove strade nel Teatro per mettere in moto processi altri in grado di mettere a punto nuove identità culturali e umane per superare i limiti stessi del Teatro, abbracciando i differenti linguaggi della filosofia, della filologia, dell'estetica, della sociologia, dell'antropologia e dell'architettura?

Credo che in tutti questi anni ho avuto il bisogno di frequentare l'idea dell' utopia, ma non mi piace il retaggio culturale e le reazioni che ci sono rispetto a questa parola, che non significa niente, non serve a nulla. Utopia è diventato il sogno di qualche idiota che sta lì ad immaginare cose inesistenti, irrealizzabili, e di persone che non hanno nulla di concreto da fare, nulla di meglio a cui pensare. C'è una lettura sociale, culturale, dell'utopia che è veramente deleteria, negativa. Io ho sentito la necessità di aggiungere ad utopia, la parola concreta. Mi piace l'idea dei due opposti. Voglio pensare che un sogno sia concreto, perché invece per alcuni, il sogno è evanescente, è qualcosa che non porta a niente. Stiamo vivendo un momento storico in cui nessuno sogna più qualcosa, in cui nessuno sa immaginare una realtà differente rispetto a quella che si è costruita. Sono convinto che l'essere umano si stancherà di tutto questo e comincerà a farsi altre domande. Io ho bisogno dell'utopia concreta. Un'utopia che si realizza mentre si fa, una pratica concreta e quotidiana. Il carcere di Volterra non è più il carcere di trent'anni fa (il teatro ha contribuito a tale trasformazione) perché gli uomini cambiano, perché io cambio. Io non sono quello che ero trent'anni fa. Mi piace parlare di me e non dei detenuti, una cosa che invece tutti si aspettano, che tutti vogliono sentire. I detenuti sono cambiati? No, sono cambiato io, sono cresciuto io. Ho avuto la fortuna incredibile di entrare all'interno del carcere, di incontrare quel luogo, quegli esseri umani, quella parte dell'essere umano così chiusa, così terribile e veramente ultima che è l'idea del carcere, della punizione, della vendetta, della violenza. Ho voluto far emergere da tutto questo bolle di bellezza, di leggerezza, di possibilità. Ne sento il bisogno. Tutto avviene dentro di me, non fuori. Sono io il primo ad avere delle segrete terribili dentro di me e ho l'urgenza che si manifesti altro: la bellezza, la leggerezza e l'amore.

Trent'anni di Fortezza è un progetto complesso: è un' <<opera totale>> pensata per avvicinare a più livelli il lavoro complesso della Compagnia della Fortezza. Le molteplici direzioni intraprese e i differenti linguaggi scelti rappresentano il significato profondo della relazione tra <<carcere e realtà esterna>>. Come hai cercato, con il contributo prezioso dei tuoi collaboratori, di creare un ponte tra l'universo del carcere e la società civile?

Trent'anni di Fortezza sono un modo, uno dei tanti modi che avevamo a disposizione per concentrare le nostre azioni e per condividere con molti altri la nostra vita e il nostro vissuto quotidiano, attraverso azioni concrete e artistiche, attraverso la creazione di spettacoli. I laboratori condotti con gli ospiti della R.E.M.S (Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza) hanno prodotto dei risultati inaspettati anche per me, perché era un lavoro diverso da quello che avevo sempre fatto. Poi lo spettacolo Beatitudo e poi il primo passaggio dal carcere a un teatro all'italiana, il Persio Flacco, con la riscrittura e la creazione di un ulteriore spettacolo, figlio di Beatitudo , che nasce sempre all'interno del carcere, ma che ha una sua autonomia rispetto al carcere. E poi ancora il 4 agosto la presentazione di Le rovine circolari - frutto del lavoro fatto negli ultimi due anni, intriso dei pensieri e delle idee su Borges – dove a muovermi è stata la frase:<< voglio sognare un uomo, voglio sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà>>. All'inizio era: <<voleva sognare un uomo, voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà>>. Il senso dei trent'anni di lavoro con la Compagnia della Fortezza sta qui: provare a sognare un uomo completamente altro rispetto a quello che conosciamo. C'è, poi, un progetto importante con l'ACRI (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio Spa). Sono rimasto colpito dalla loro attenzione, dalle persone che abbiamo incontrato, persone culturalmente ‘avanti' che hanno trattato il mio lavoro, e quello di altri che fanno teatro in carcere, con una cura incredibile e non con la solita idea compassionevole delle due lire da dare a chi lavora con persone emarginate. Il contributo prezioso dei miei collaboratori. Non ho fatto tutto da solo. Sono una persona che dichiara sempre la necessità assoluta dell'aiuto degli altri. Non a caso nella Compagnia della Fortezza tutti gli stagisti, tutte le persone che si avvicinano a noi, poi restano. In questi trent'anni, il lavoro fatto è stato sostenuto da tanti collaboratori, da quelli più stretti a quelli che vengono quando possono e che, tuttavia, sono fondamentali per dare vita a quanto creiamo. Senza trascurare poi i detenuti-attori e gli agenti del carcere, questi ultimi straordinari sostenitori del nostro percorso. Il risultato credo si sia visto in questi giorni: sono state coinvolte quasi un centinaio di persone tra attori, stagisti e tante altre persone che sostengono la nostra idea.

Per tutte le informazioni sul progetto Trent'anni di Fortezza si veda il sito: compagniadellafortezza.org.