EditorialeIn itinereFocus Nuove arti visive e performative A sipario aperto LiberteatriContributiArchivioLinks
         
       
 

L’infinito stupore di Teatri di Vetro
Intervista a Roberta Nicolai


di Letizia Bernazza

 

Teatri di vetro è giunto alla sua decima edizione. Nella tua annotazione al programma, definisci questi anni

“di infinito stupore”. Le parole mi sembrano racchiudere con intensità il significato di un progetto autentico

che è riuscito a sopravvivere malgrado le difficoltà in cui versa il nostro Teatro. Una sfida vinta per te e per

tutti coloro i quali hanno reso possibile sino ad oggi la realizzazione di Teatri di vetro?

 

Credo che TDV sia, oggi, un atto di immaginazione. Ingenua, straziante, disperata che riposa sul suo iniziale

fallimento come atto politico.

TDV non era nato per durare. Nel 2007, alla Prima edizione, immaginavo un atto artistico e politico così

potente da cambiare la storia del teatro. Non è stato così.

Oggi, come allora, TDV si fa interprete di una realtà dispersa. È uno sterminato campo di indagine. Ma ciò

che lo rende vivo e ancora possibile o addirittura necessario, è la pratica della visione che negli anni lo ha

trasformato in una strategia di conoscenza. Pratica di visione esercitata attraverso la prossimità, la vicinanza

con opere, con percorsi artistici per vedere non soltanto ciò che il sistema evidenzia o controlla, ma quello

che il sistema respinge, quello che sfugge. Di questi livelli sfuggenti TDV tenta di fare una narrazione in

disequilibrio tra coerenza e promiscuità.

Ogni edizione di TDV è una narrazione che si nutre anche di qualche punto fermo, come paletti messi qua e

là, ma che si articola principalmente nei vuoti, nei buchi, nel non comprensibile. Al centro l’idea di salvare

l’opera dopo averla creata. Salvare e non consumare. Indicarla e illuminarla, salvarla per un giorno nella

speranza che altri ( intellettuali, critici, curatori, spettatori) la salvino per un altro giorno e poi un altro ancora

e così quel gesto fragile che ci dice ciò che siamo, è salvo forse per sempre.

Tutto questo è l’infinito stupore e questo infinito stupore è al cuore di TDV. E tutto ciò che sta al cuore di

TDV è effimero. Sta a contatto con questa paura di svanire che è l’arte della scena. E che nessuna strategia

comunicativa può redimere.

 

Il sottotitolo del Festival è “difetto di massa”. Cosa vuol dire?

 

Difetto di massa è una definizione scientifica che indica come in un sistema non chiuso, la massa totale sia

inferiore rispetto alla somma delle masse dei componenti; la massa persa è equivalente all’energia scambiata

con il resto dell’universo.

In un momento in cui imperano i codici del vincente, dello straordinario, abbiamo voluto festeggiare il

rilascio, la diminuzione, la perdita che testimoniano che il sistema di ogni singolo spettacolo, come

dell’intero festival che si propone come progetto artistico, non è chiuso e che consente ancora uno scambio

con il resto dell’universo, con l’esterno.

A festival accaduto, posso dire che raramente un claim è risultato così esatto ogni sera, per ogni singolo

lavoro programmato. In alcuni casi il difetto di massa era predisposto dal dispositivo scenico su cui poggiava

l’opera, era, come direi, la sua anima, il suo centro. In altri quella predisposizione alla perdita, allo scambio,

al dono reciproco era più sottile, andava ricercato dalle parti. Ma è andata sempre così.

 

Teatri di vetro si è concluso lo scorso 22 ottobre. Che bilancio ti senti di fare?

Dopo questa edizione TDV è più vicino a ciò che è e vuole essere. Il formato di quest’anno ha determinato

una percezione del tutto nuova. Aver strattonato il formato festival, aver distribuito nel tempo e nello spazio i

quarantacinque spettacoli, ha avvicinato un po’ di più TDV alla sua stessa natura. Ha creato vuoti, spazi in

cui far entrare la riflessione e in cui alimentare le relazioni. Abbiamo avuto tempo, prima e dopo gli

spettacoli, di ripensarli e parlarne, con gli artisti, con la critica, con gli amici. Ogni lavoro ha creato un suo

luogo. Non si è trattato di una galoppata sul posto ma di un respiro lungo, un processo di accadimenti che

hanno disattivato il puro consumo e hanno creato la possibilità di un’esperienza.

Un artista mi ha detto l’altro giorno: <<ma TDV non può durare tutto l’anno?>>. Mi ha fatto riflettere. È

chiaro che se durasse tutto l’anno sarebbe stabilità e non straordinarietà, sarebbe una stagione, seppur

diffusa, e non un festival. Al di là dei problemi di sostenibilità economica, ho pensato che sul piano ideale è

proprio questo l’orizzonte a cui tendere.

 

Teatri di vetro e la scena romana. Quale il rapporto?

TDV ha da sempre una forte relazione con la scena nazionale. Alcune relazioni territoriali sono negli anni

diventate molto forti, sono legami. Ma equivalenti a quelli che si sono creati con artisti di altre parti d’Italia.

Io ho sempre cercato la comunità, quello scambio di idee, di azioni, di pensiero critico che creano relazioni

importarti tra le persone.

Continuo a pensare che il teatro deve essere il luogo in cui si esprime l’umano. È un pensiero tanto semplice

da risultare rivoluzionario. La scena contemporanea per me deve edificare questo luogo. O semplicemente

non esiste. La proposta artistica di TDV è questa ed è forse l’unico piano irrinunciabile. L’unica clausola non

scritta di un contratto. E non è e non può essere una questione geografica.