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Alla ricerca di parole lievi per rovesciare il senso del nostro stare al Mondo

Conversazione con Armando Punzo

di Letizia Bernazza

 

È l'agosto del 1988 quando Armando Punzo e l'associazione culturale Carte Blanche danno vita al primo laboratorio teatrale all'interno del carcere di Volterra. A novembre dello stesso anno, il regista inizia il lavoro con i detenuti e nasce la Compagnia della Fortezza. Sono passati quasi trent'anni. Un arco di tempo significativo che è la prova evidente di una scommessa vinta: per Punzo, per i detenuti-attori e per tutte quelle persone che lo hanno affiancato e lo affiancano quotidianamente dentro e fuori il carcere.

Innanzitutto, però, è necessario interrogarsi su quale è stata, e lo è nel presente, la ragione fondante dell'esperienza teatrale della Compagnia. A mio avviso - alla luce anche di uno studio, dedicato diversi anni fa al percorso del gruppo (era il 1998 quando usciva per i tipi della Rubbettino Editore, nella collana Teatro Contemporaneo d'autore, il volume La Compagnia della Fortezza - curato da Valentina Valentini e dalla sottoscritta) – ciò che muove l'infaticabile attività di Punzo è l'idea - tradotta in un piano concreto di fattibile attuazione - di volere e di potere varcare un limen , una soglia, necessaria per creare un gruppo e, quindi, delle relazioni. Un territorio di ‘confine', che lo ‘obbliga' a confrontarsi con il ‘rischio' e il ‘limite' della struttura carceraria, opponendole una manifesta e consapevole ‘resistenza'. Il viaggio teatrale proposto dal regista all'interno della Casa Penale di Volterra, infatti, ha un valore preciso: non tende a ‘riabilitare' o a ‘rieducare' i detenuti, quanto a fondare degli ‘spazi di libertà' in cui - attraverso la disciplina, lo sforzo e l'impegno - si mette in pratica un rapporto diverso con il Mondo esterno. I detenuti-attori affrontano il rischio del contatto con gli Altri, esponendo con consapevolezza la loro ‘diversità': quella di essere, per l'appunto, una Compagnia teatrale di detenuti-attori. È questo l'assunto chiaro ed evidente da cui scaturisce l'affrontare il Teatro come una prova per forzare l''agire' in contesti dove le problematiche reali del carcere (luoghi troppo spesso ristretti, ad esempio, e dunque non idonei alla costruzione dello spettacolo, ma non solo) sembrano costituire il terreno dell'Impossibile. Per l'estetica teatrale di Punzo, tuttavia, l'Impossibile non è inteso come qualcosa di ‘inattuabile': è piuttosto una scelta che muove una ricerca espressiva e singolare del proprio Sé.

Nel 2017, Armando Punzo non sarà più il Direttore artistico di VolterraTeatro. Tuttavia, dal 25 al 29 luglio, sarà presentato - nella cittadina Toscana e negli stessi giorni della kermesse - il suo spettacolo Le paole lievi. Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato , ispirato all'opera di Jorge Luis Borges nell'ambito del Progetto Hybris. Un progetto, complesso ed articolato, che sarà accompagnato da un ciclo di incontri con alcuni tra i più rappresentativi e raffinati pensatori del nostro tempo protagonisti di serate speciali nell'area recentemente ristrutturata della Torre del Maschio. Sono convinta che le ‘visioni' degli scritti di Borges densi di slittamenti conoscitivi e di metafore  saranno per il regista l'inizio di un percorso nuovo. Un viaggio teso, come tuttavia è da sempre quello di Punzo e dei suoi collaboratori, a ‘forzare' i limiti del reale per rifondare il labirintico comporsi dell'immaginario collettivo.

Con grande piacere e interesse, ho rivolto al Armando Punzo alcune domande sia sulle sue motivazioni che lo hanno spinto quest'anno a non dirigere il Festival di VolterraTeatro sia sul Progetto Hybris - a cura di Carte Blanche – pensato per il biennio 2017-2018 e che si concluderà proprio in occasione del Trentennale della Compagnia.

 

Cominciamo da qui. La lettera, pubblicata su Facebook nella notte tra il 20 e il 21 giugno, che annunciava le tue dimissioni dalla ventennale direzione artistica di VolterraTeatro è stata una doccia fredda. All'improvviso, veniva azzerato un punto di riferimento teatrale e culturale per il territorio, per l'Italia e per la visibilità internazionale. Cosa ha guidato la tua scelta – espressa con parole di autentica coerenza e lucidità - e recepita da tanti lettori con grande amarezza?

 

VolterraTeatro è diventato negli anni la casa di tanti artisti. Non soltanto, dunque, del Festival e della mia Compagnia. Venti anni fa, ho cercato e ottenuto, che il Festival fosse un'opportunità per considerare e riconsiderare il Teatro e le sue possibilità. Ho trovato un tema, i Teatri dell'Impossibile; ho assunto la guida di VolterraTeatro e gli ho dato una direzione, che fino a quel momento non aveva avuto. Tanti artisti, di diverse provenienze, hanno avuto l'opportunità di agire in un Luogo dove inseguire la loro ricerca, anche fuori dalla stessa ‘retorica del Teatro di ricerca'.

Dopo vent'anni, la questione è che questo Bando – uscito un mese prima dell'inizio del Festival - e le condizioni che imponeva, a forte ribasso, non mi permettevano assolutamente di mantenere la qualità e l'idea iniziali. Una manifestazione può avere delle difficoltà, dei problemi. Questo è chiaro. Però, se il livello diventa troppo basso, non si fa più un buon servizio. Soprattutto al territorio a cui, al contrario, tengo moltissimo. Ho sempre tenuto a collegare l'attività della Compagnia della Fortezza e del Festival ai comuni vicini. Tuttavia, per mantenere vivo un tale lavoro (malgrado i mezzi economici siano sempre stati esigui) c'è necessità di avere delle risorse. Con questo Bando non era più possibile garantire quanto fatto fino ad oggi. Con grande dispiacere, ho dovuto farmi da parte. Se un giorno a Volterra le condizioni dovessero cambiare, sicuramente potrei ripensare di partecipare ai nuovi Bandi emessi.

Quello che voglio sottolineare, però, è che tale situazione non è stata per noi una fermata. Uno stop. Si è tradotta in un approccio rinnovato sul lavoro della Compagnia e sul Progetto Hybris.

 

Il fatto avvenuto, riflette l'attuale panorama del Teatro italiano?

Quanto accaduto a Volterra è lo specchio di una tendenza, di una direzione, che sta attanagliando la cultura e il teatro. In Italia ci sono altre situazioni simili, altri Festival bloccati. Spero che la nostra lettera e le nostre scelte servano a far riflettere.

Nel 2018 si celebrerà il trentennale della Compagnia della Fortezza. Per l'occasione avete ideato, da quest'anno, un progetto biennale dedicato al tema della Hybris. Come si lega il topos della tragedia e della cultura greca alla tua poetica teatrale?

Non ci avevo riflettuto prima. Ho sempre ragionato sui Teatri dell'Impossibile. Poi, grazie alla scena finale del nostro ultimo spettacolo, Dopo la Tempesta , dove Lui e il Bambino lasciano l'Umanità così come ce l'ha consegnata Shakespeare e in cui sembra che quella stessa Umanità non possa mai modificare il suo stato, ho abbracciato l'idea della Hybris, un'eredità ‘pesante', ricevuta dalla cultura greca. Da una parte dunque l'opera di Shakespeare, grande filosofo dell'Occidente; dall'altra la ricchezza delle nostre radici restituiteci dalle tragedie greche. L'idea che i due personaggi, abbandono dell'Umanità, potessero peccare di hybris ed essere accusati di superbia, tracotanza, mi metteva in grande difficoltà e mi faceva apparire tutto come veramente terribile. In quelle due figure che vanno via, ci vedo una parte di Umanità che è alla ricerca quotidiana di soluzioni straordinarie per loro e per gli altri, i quali, tuttavia, non riconoscono quei personaggi, li ignorano, o addirittura li ostacolano (a volte è capitato anche a noi!) perché non si rendono conto di usufruire di una ricerca importante perseguita in differenti ambiti da persone che rischiano davvero, che vanno oltre i limiti, che alzano la testa e tentano di volare come Icaro. Per tutto questo, ho ritenuto che l'idea della Hybris potesse sposarsi con il vissuto reale della Compagnia della Fortezza.

A inaugurare il progetto biennale sarà, dal 25 al 29 luglio, Le parole lievi. Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato, ispirato all'opera di Jorge Luis Borges. Dalle tue dichiarazioni, è chiaro che l'autore di origine argentina offra un tema che è in perfetta sintonia con quel rovesciamento di prospettiva comune' alla base dei ‘temi impossibili' del tuo lavoro. << L'arte>>, scrive Borges,  <<è un piccolo miracolo […], che sfugge, in qualche modo, all'organizzata casualità della storia>>. L'eternazione del quotidiano a metafora dei suoi scritti e il principio di realtà, continuamente inafferrabile e ‘trasformabile', come si sposa a quel ‘disseminato viaggio di labirinti e finzioni' del tuo percorso?

Negli ultimi due anni, mentre lavoravamo su Shakespeare, Borges è stato il nostro compagno di viaggio. Mi sono reso conto con il tempo che bisognava ‘frequentarlo' di più, approfondirlo di più. La riflessione sull'ultima scena dello spettacolo Dopo la Tempesta , di cui parlavo prima, mi ha fatto capire che sarebbe stato lui l'autore di riferimento. Così, abbiamo cominciato a leggere la sua opera e a lavorarci su. Innanzitutto, mi ha colpito che non c'è possibilità di empatia con la sua scrittura e con i suoi personaggi. Borges, infatti, trasporta questi ultimi su un altro livello - che è sempre umano ovviamente – ma proponendo una sorta di Mondo delle idee. Un Mondo sempre dentro l'uomo, però minoritario. Borges ha un'autentica ossessione nei confronti della realtà. È chiaro che lo scrittore deve aver avuto un giudizio negativo sul modo in cui concepiamo il rapporto con essa. Una relazione che, secondo me, diventa in noi verità. Tutto ciò che ogni giorno concepiamo e sentiamo come realtà Borges lo mette in crisi. E fa bene a farlo, perché è lì che si blocca la crescita di un essere umano e di una comunità. Acquisire come verità qualcosa che proviene dalla tradizione, dall'educazione, dal pensiero comune o più semplicemente dal sentito dire, ci ferma, ci uccide, con la conseguenza che - se proviamo a uscire da questo recinto - viviamo delle frustrazioni terribili. Borges, da grande intellettuale e conoscitore della letteratura mondiale, utilizza ciò che è stato scritto per rielaborarlo. Dunque riscrive e trasforma. Anch'io ho sempre fatto questo rispetto alla scrittura e alla struttura di altri autori. Quando Borges non mi permette di entrare in empatia con la sua opera è evidente che ‘mi sta spostando da me'. Se capisco bene qual è la sua operazione soprattutto nei suoi racconti dove mi mette di fronte a personaggi, uno ad uno alla ricerca di un qualcosa che è fuori dall'ordinario, è certo che mi sta suggerendo qualcosa. Mi è venuto il sospetto che sono in molti a non aver colto il significato profondo che c'è nei suoi racconti. Borges ci dice di metterci in movimento, di prendere le distanze da noi stessi, di eliminare tutte le incrostazioni che sono dentro di noi, di metterci in gioco, in discussione. Tutti i personaggi di Borges sono alla ricerca di qualcosa di straordinario, dicevo. E l'autore ci invita a fare lo stesso.

In che modo Borges accompagnerà il tuo viaggio e quello del tuo gruppo di lavoro alla ‘ricerca della felicità'?

Se inizi il percorso indicato da Borges stai già cominciando un viaggio verso la felicità. Stiamo vivendo un momento storico difficile, di stasi. Le persone non sono in movimento, alla ricerca di qualcosa. Piuttosto, tentano disperatamente di stare in questo Mondo. Le parole lievi esistono dentro l'essere umano. Rappresentano, però, uno spazio davvero esiguo che nel nostro lavoro cercheremo di far crescere e di curare senza soffocarlo con un'idea di realtà vittoriosa su tutto e su tutti.