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Intervista in cinque domande

di Alfio Petrini

1.Quale differenza esiste tra l'attore e il performer?

2.Sulla base delle tue esperienze, ci puoi raccontare come avviene la ideazione, la progettazione e la realizzazione di una performance?

3.Che senso ha fare performance nella polis contemporanea?

4.Come attore/danzatore ci puoi raccontare come ti metti in rapporto con il testo linguistico (se c'è) e quale metodica di lavoro applichi per la costruzione del personaggio? Fai riferimento ai processi organici o ai processi di astrazione?

5. Se fai (anche) il regista, come lavori con l'attore/danzatore? La scrittura scenica nasce da un testo linguistico, oppure no?

Hanno risposto alle domande i seguenti artisti.

Marco Palladini

1 . Mi verrebbe da controdomandare: di quale attore stiamo parlando? Perché se penso a nomi come Romolo Valli, Tino Carraro, Giorgio Albertazzi, Gabriele Lavia o Mariangela Melato, è evidente che al di là dei specifici e diversi talenti (anche molto rilevanti) c'è una tecnica che identifica un tipo di attoralità funzionale o multifunzionale a un teatro come spettacolo più o meno di convenzione e di confezione, che può essere culturalmente rispettabilissimo, ma dal punto di vista dell'innovazione estetica essenzialmente inerte. Se penso, invece, a Carmelo Bene, Leo de Berardinis, Perla Peragallo o, al presente, per esempio, ad Antonio Rezza, ho chiaro che si tratta di attori-performer che rifondano con il loro gesto, con il loro corpo, con la loro voce l'alfabeto della scena, che provocano l'irruzione di un ‘inaudito', un mai visto né sentito nel témenos teatrale. Potrei allora dire, parlando in generale, che l'attore è il praticante ortodosso che replica più o meno bene, più o meno nobilmente, sempre il medesimo rito scenico. Mentre il performer è l'eretico, il fuorilegge che introduce una variante imprevista, che segna uno scarto, una infrazione alla norma. Piccolo o grande che sia il suo atto artistico è sempre una palingenesi.

2. Il mio percorso ultraventennale si è sempre mosso nell'interfaccia tra poesia, teatro e musica. Che io muova da testi miei o da testi altrui le mie performance sono sempre in partenza un pasto cannibalico. Nel senso che debbo cannibalizzare le parole mie o i versi di altri, li debbo rimasticare, digerire e rivomitare fuori secondo una forma ed un flusso verbale che contenga un determinato grado di energia. Fondamentalmente il tempo di studio e di prova è dedicato a questo lento crescere e mettere in forma una energia verbale dirompente, battente, contundente. La mia poesia scenica è basicamente rock, talora rappeggiante, e ha bisogno di intrecciarsi con la musica. Musica che è un mélange di suoni sporchi, distorti tra elettronica, pop-rock, jazz, etno. Su questo fondamento penso, poi, agli elementi visivi, foto o video, agli oggetti scenici, alle maschere, al diagramma di movimenti da comporre. Che attraversi de Sade o Pasolini, Emilio Villa o Peter Esterhazy, Kerouac o Gianni Toti, in ogni caso il mio principale sforzo è rivolto a creare una partitura testuale-vocale incandescente, che nel suo bruciarsi riesca in qualche modo ad illuminare la mente e l'animo degli spettatori.

3. Se dalla polis scaturisce la politica, la risposta è già tutta qui. Per quanto mi concerne la performance è un atto politico, di una politica dell'arte dalla parte della differenza, della dissidenza, dell'alternativa senza se e senza ma al mondo della mercificazione globalizzata, della reificazione antropica generalizzata e totalitaria. Il performer, per come lo intendo io, è un soldato dell'arte, combatte una guerra forse già persa, ma tanto più necessaria per non darla interamente vinta ai demiurghi cattivi del mondo (per dirla con E. M. Cioran).

4. Da autore-performer o ‘auttore' quale mi reputo assai raramente mi sono fatto interprete-attore nel senso di incarnare un ‘personaggio'. Però di recente ho interpretato un bel monologo letterario-teatrale di Stefano Lanuzza intitolato Male detto Céline , in cui mi sono posto il problema di come evocare lo scrittore francese. Esclusa la via mimetico-psicologica, ho però studiato alcuni suo vezzi mimico-gestuali e comportamentali, da riportare in scena al contempo come segni e come sfregi. Diciamo che il mio Céline era estraniato da se stesso, era additato dall'esterno verso l'interno, facendo vagamente riferimento alla verfremdung brechtiana. Ma il tutto è avvenuto spontaneamente, provando, seguendo alcune intuizioni, da autodidatta non seguo alcuna teoria e non ho alcun metodo da ammannire. Mi affido a un teatro della prassi.

5. La regia intesa come teatro di regia (alla Strehler o Ronconi, per capirci) non mi riguarda. Però facendo spettacoli/performance dove ci sono talora altri attori, mi tocca di dirigerli. Il mio lavoro parte sempre da un testo, a da svariate letture a tavolino per capire come funziona la macchina linguistica e vocale, come farla carburare e viaggiare al meglio. E per esaminare i significati nascosti, i fili sottotestuali. Quando poi si prova in piedi, dò massima fiducia all'attore, non dò quasi indicazioni, mi aspetto che sia lui a fare proposte, a sorprendermi, ad aiutarmi a trovare le vie migliori per mettere in piedi lo spettacolo. Insomma, credo a un attore creativo e propositivo, non all'attore passivo esecutore, marionetta nelle mani del regista-burattinaio. Poi, certo, il regista alla fine si deve prendere le sue responsabilità, deve fare le sue scelte, decidere la direzione in cui andare, ma il materiale vivo, grezzo, da plasmare me lo aspetto dall'attore o performer che sia. Da ultimo posso dire che il teatro, sia facendolo che guardandolo, fondamentalmente mi deve stimolare e non mi deve annoiare.

Roberto Latini

1.La differenza è un confine che somiglia alla messa a fuoco. esiste un confine mobile tra le due dimensioni che non sono in contrasto tra di loro; esiste anche un confine dato dalla grammatica dello spettacolo, dalle sue geometrie, dalle sue aspirazioni, che viene tracciato, misurato, oltrepassato continuamente da chi è in scena. a parer mio, sono due dimensioni della stessa immagine, contenute nella stessa immagine. si può mettere a fuoco una parte più di un'altra e cambiare distanza all'interno della stessa azione. non c'è contrasto possibile, né vera alternanza, ma la possibilità che attore e performer convivano in un equilibrio come quello che c'è tra l' agire e il reagire alla scena.

2. Avviene nell'abbandono. studiare da attore vuol dire imparare a usare dei mezzi espressivi e di comunicazione. nella performance quanto imparato va perduto. la performance è un distillato, puro, purissimo dell'arte drammatica, ma non può avere a che fare davvero con il progetto, con il progettare, con la sapienza che costruisce architetture. può essere solo liberata, con la perdita della resistenza.

3. Diverse risposte possibili e quindi nessuna, a parer mio, davvero capace di rispondere. quanto è in movimento non può essere misurato, non può incastrarsi, né fermarsi a far fare le foto. la performance ha solo questa possibilità: entrare nel tempo del tempo e fregarsene del resto.

4. Cerco di respirare la parte. principalmente questo. dalla respirazione all'emissione. ho sempre fatto in questo modo. fondamentalmente questo: metto il mio respiro dentro alle parole e l'azione. quanto diventa non è più testo e non sono io per come mi metterei io in scena. cerco di trovare il ritmo della respirazione. è una cosa che diventa suono e azione e da questo possibile altro. non è previsto cosa, non applico una strategia, non un metodo. mi dispongo solamente, mi disarmo il più possibile.

5. Quando sono regista, sono quasi sempre anche attore. lavoro con gli attori principalmente da attore. e nel concetto di autoralità dell'essere in scena. nessuno esegue una parte, non una partitura, tutto quello che chiedo ha a che fare sempre con due principi semplici e difficilissimi che sono "ascolto" e "relazione". la scrittura scenica nasce dentro una sensibilità. ognuno ha la sua. ogni attore e ogni spettatore. la scrittura è solo un mezzo, non è la destinazione. più della scrittura, la "lettura scenica" sarebbe secondo me l'argomento.. ma penso valga la risposta data appena sopra: il "sentire scenico" è quanto ci scambiamo tra platea e palcoscenico. il resto sono declinazioni.

Claudia Sorace e Riccardo Fazi

1. Riccardo Fazi. La differenza ha a che fare con la distanza tra me che osservo e chi è in scena. Se vedo la persona, l'autore più del personaggio e dell'interprete, mi sembra di avere a che fare con un performer. Mi trovo davanti a un performer ogni volta che il filtro tra il mio sguardo e quello di chi è in scena (e la scena è qualsiasi: una strada pubblica, un teatro stabile, un sotterraneo, una biblioteca) è tanto sottile da farmi dimenticare della possibilità dell'interpretazione. Il performer agisce, fa, racconta, mostra a partire da se stesso. Anche un attore, ovviamente, ma tra il gesto e la mia lettura di quel gesto, in questo caso, c'è sempre la presenza, o quantomeno l'immaginazione di un terzo ulteriore, che sta tra me e lui/lei. Tra me e il performer c'è qualcosa nell'aria e nella distanza che ha a che fare paradossalmente più con me che con lui; tra me e l'attore, l'oggetto di questo scambio dialettico ha più a che fare con lui, o con chi lo dirige. C'è più spazio per me, di fronte al performer. Il performer posso essere anch'io. Il concetto di performer è più ampio. Un performer può essere attore, ma il contrario è più difficile. Un performer è se stesso, così tanto da dimenticarsene e farcene dimenticare.

2. Claudia Sorace. Il lavoro si nutre di lavoro, e il pensiero scorre seguendo un flusso continuo. Mi piace immaginare che le singole performance o progetti siano delle insenature, delle curve che rallentano questo pensiero, mettendolo in comunicazione con il mondo. Come a dire : “siamo arrivati qui” prima di ripartire nuovamente. Dunque l'ideazione è qualcosa che non ha un chiaro momento d'inizio e di fine. Il campo è già delimitato e nasce probabilmente dall'ultimo lavoro fatto, dagli esiti dell'ultima sterzata. Però c'è un momento preciso in cui nasce un'idea che necessita di essere sviluppata e approfondita. A questo punto inizia il lavoro di progettazione. L'avvicinamento al lavoro passa molto per lo studio della materia, per la ricerca delle fonti e la creazione di una documentazione. Chiaramente ogni progetto crea le sue necessità e stabilisce i suoi riferimenti, c'è una forte relazione tra il percorso di studio che porta allo spettacolo e lo spettacolo finito. Direi che per la definizione di un progetto questa fase di preparazione e di avvicinamento alla materia è fondamentale. Ad esempio ora, mentre stiamo lavorando a un nuovo progetto che ha come protagonista una giovane blogger egiziana ci siamo messi sulle sua tracce, cercando tutto quello che ha lasciato dietro di sé sul web. Il lavoro di progettazione nasce da questo nostro gesto: la raccolta delle sue tracce e lo studio del suo mondo. La realizzazione del lavoro è diretta conseguenza di questo processo di studio e di lavoro, il suo naturale punto di arrivo.

3. Riccardo Fazi. Nel tentativo di un riavvicinamento tra le persone e la polis stessa. La performance del cittadino è sempre più una performance privata, che esclude il luogo diffuso che abita per concentrarsi all'interno del proprio spazio personale. Fare performance nella polis (e con questo intendo performance che avvengono negli spazi pubblici della polis, e che prevedono l'interazione con gli abitanti) significa principalmente mettere in relazione: individui, luoghi, forme d'espressione, sguardi, punti di vista. Mettere il cittadino di fronte all'inaspettato. Farlo salire sul tavolo per fargli guardare ciò che pensa di conoscere bene da un inedito punto di vista. Fermarlo e guardarlo negli occhi. Chiedergli di essere presente a se stesso. Farlo divertire un pò.

4. Riccardo Fazi. Non sono un attore, ma mi capita, a volte, di essere in scena. In quei casi mi sento soprattutto un veicolo, un mezzo: sono un medium, tra gli altri in scena, che si fa tramite di una storia, di un racconto. Nel farlo, sono me stesso che compie dei gesti. Gesti vocali, o fisici. Attraverso i gesti, le azioni, mi avvicino, e faccio avvicinare a quello che ho da raccontare.

5. Claudia Sorace. Il nostro lavoro non nasce quasi mai dall'incontro con un testo linguistico preesistente. Dunque il lavoro con l'attore non può partire da questo riferimento. Anche nel caso del rapporto con l'attore la qualità della sua presenza e del suo lavoro sono diretta conseguenza del progetto, del piano su cui si sta lavorando. Nel nostro ultimo spettacolo, Displace, il lavoro con le performer è stato incentrato sul trovare uno stato fisico che esprimesse la dimensione si spiazzamento e di disorientamento su cui stavamo lavorando. Una chiave del lavoro è stata lavorare sulla fatica, sullo sfinimento fisico e sulla difficoltà concreta del loro muoversi in scena. Dunque sul palco, a terra, tutto era pieno di macerie, di gesso e sabbia, che ostacolavano il loro cammino e impedivano il loro movimento. Lavorare in questa situazione conflittuale, di impedimento, con la necessità di superare un ostacolo continuamente presente in scena rappresentava il cuore del lavoro, la possibilità di affrontare la questione di come è possibile comunicare dal punto di vista performativo una sensazione di mancanza di punti di riferimento, di smottamento percettivo ed emotivo. Il mio lavoro è stato prima di tutto creare lo spazio, costruire la difficoltà del luogo, e chiedere alle performer di affrontare quella difficoltà, quel conflitto. Nel caso del progetto a cui stiamo lavorando ora le questioni che riguardano la presenza scenica sono molto diverse, per cui anche il mio rapporto con chi è in scena cambia natura. In questo caso i performer sono dei collettori di tracce, dei cercatori, dei narratori. Qui si tratta di creare le condizioni per cui possano farsi portatori di questo archivio e possano ordinarlo per farne un racconto unitario che passa per la mediazione della loro presenza.

Marco Sgrosso

1 . Penso che, a livello teorico, ci sia una differenza abbastanza netta tra attore e performer. Senza volere sminuire il valore del primo, ma proprio nel rispetto di questa differenza, credo che l'attore sia una figura più complessa. Certamente la prestazione di un buon performer richiede intelligenza, brillante inventiva ed estro creativo, laddove quella di un buon attore si basa su un apprendistato più lungo e più specifico e richiede una diversa, forse maggiore, preparazione tecnica. Un buon attore deve avere necessariamente alle spalle un solido allenamento di corpo e voce, che unito ad un progressivo e vigile affinamento del pensiero e ad un costante esercizio sul controllo e sull'espressione del sentimento, costituisce il fondamento su cui poter costruire il suo lavoro creativo, sia nel caso di un attore-autore che in quello di un attore-interprete. Il performer, invece, poiché può consumare la sua azione in un tempo scenico relativamente più breve, necessita di uno spirito inventivo ed esecutivo più vicino al concetto di “improvviso”. Immagino cioè il performer come una sorta di artista-jazzista capace di cogliere il senso artistico della performance di cui è protagonista e di adeguarsi attraverso la sua abilità improvvisativa all'azione creativa in atto. Naturalmente, queste sono facoltà necessarie anche ad un buon attore, ma la sua prestazione artistica generalmente impone un tempo ed una resistenza diversi. Sono frequenti i casi performance basate soprattutto sull'espressività fisica oppure di natura prevalentemente astratta: in casi simili non è indispensabile la padronanza vocale o la capacità di immedesimazione in un personaggio con determinate caratteristiche. Un attore completo necessita di uno spettro di possibilità espressive superiore a quelle richieste ad un performer. Naturalmente, nulla esclude che un valido attore possa rivelarsi anche un valido performer, o viceversa: tutto dipende dal contesto artistico e dalla preparazione dell'uno e dell'altro.

2. Non ho alle spalle una significativa attività di performer o di ideatore di performance, mentre ho una carriera trentennale di lavoro attoriale, che nel tempo si è arricchita di attività come regista e come pedagogo. Secondo la mia esperienza diretta, credo che l'ideazione e la progettazione di una performance debbano basarsi su un'idea chiara e forte e sulla capacità di ‘sintesi' nella costruzione e nell'esecuzione dell'evento artistico. Quando mi è capitato di partecipare alla creazione di performance, o di assistere a performance ideate da altri, ho sempre avuto l'impressione che sia molto importante il “punto focale” della performance e che il senso ‘primario' dell'evento debba essere netto e limpido, mentre la costruzione di uno ‘spettacolo' si nutre di più complessi livelli di lettura e richiede forse una maggiore cura dei dettagli perché il tempo più lungo della ‘rappresentazione' impone questi arricchimenti. Una performance può essere splendida anche se di durata molto breve se il centro espressivo è chiaro.

3. Difficile dare una riposta generica. Molto dipende dal senso e dalla qualità della performance e dallo “stato” della polis . Certamente si tratta di una forma espressiva relativamente “giovane”, la cui epifania è certamente sintomo di nuove necessità della comunità civile. Forse, proprio per la sua possibilità di avvenire anche in tempi brevi ed in luoghi privi di determinate esigenze sovrastrutturali, la performance è oggi portatrice di una possibilità di senso nuovo e più agile.

4.Sono un attore, non un danzatore. Tuttavia credo che per un buon attore il lavoro sul corpo non debba essere disgiunto da quello sulla lingua e sul testo. Un attore completo lascia ‘respirare' insieme voce e movimento, ogni sfumatura della voce ha una corrispondenza, magari impercettibile, sull'equilibrio del corpo. Ho sempre lavorato su un teatro di parola non disgiunto dalla corrispondenza fisica. Nel lavoro sul ‘testo' - grazie al prezioso insegnamento di Leo che è stato per me un grande Maestro – ho sempre considerato l'importanza del suono e della musicalità non inferiori a quella del senso. La parola “teatrale” deve avere un peso e una sostanza diversi da quella “quotidiana”, anche quando è naturalistica. Un esempio esemplare è quello delle opere di Anton Cechov: i personaggi dialogano in situazioni ‘naturalistiche' ma il livello della comunicazione procede per sottilissime sintesi che acquistano spessore informativo sul loro carattere umano e sulla loro funzione drammaturgica.

5. Nella mia esperienza diretta di regista e di creatore mi è capitato sia di partire da un testo linguistico precostituito, sul quale generalmente sono intervenuto rielaborandolo in parte, sia di costruire la scrittura scenica e il testo definitivo a partire da un lavoro di improvvisazione con gli attori. Particolarmente interessante è stato partire dalle suggestioni e dalle situazioni che potevano scaturire da un testo drammaturgico predeterminato per andare a costruire il testo finale dello spettacolo attraverso libere improvvisazioni sulla costruzione del personaggio, non disgiunte dalle possibili azioni fisiche.

Luca Ricci

1.Dal mio punto di vista definisco “performer” qualcuno che agisce sulla scena in maniera diretta, senza la mediazione attoriale della trasformazione in qualcosa di diverso da sé. Chiamo invece “attore” qualcuno che, pur partendo dal proprio vissuto personale, agisce sulla scena interpretando uno o più personaggi o comunque si lascia trasformare in qualcuno (o qualcosa) che è diverso da sé.

2. Credo di aver fatto due sole performance nella mia esperienza di regista. In entrambi i casi il contesto in cui il performer sarebbe andato a operare mi era già chiaro prima ancora di iniziare le prove (al contrario di quanto accade quando inizio le prove di uno spettacolo con attori), e tutta la “macchina” che stava intorno al performer era l'elemento centrale della mia costruzione di senso. In entrambi i casi chiedevo al performer di interagire con il contesto che avevo creato per lui. Chiedevo esplicitamente al performer di non interpretare nulla, ma semplicemente di stare, di fare, di reagire al contesto.

3.Credo che la performance risponda bene alla richiesta di verità, di dialogo diretto, alle volte anche di coinvolgimento dello spettatore, che riconosco come una delle caratteristiche più evidenti dello spettacolo dal vivo del nostro tempo. Ritengo dunque che la performance non sia alternativa al teatro d'attore ma che ne completi la proposta, magari andando a intercettare spettatori meno sensibili ai dispositivi di “verità alterata” che sono la caratteristica del teatro.

4.Io sono un regista, non un attore, per cui posso raccontarvi dall'esterno come aiuto un attore a stare in relazione con la parola. Nei miei spettacoli non si parla molto, d'abitudine, molto spesso le parole sono scritte direttamente dagli attori o proiettate. Ma questo non significa che io non attribuisca rilevanza alle parole, anzi…Quando comunque si tratta di parole “dette” sulla scena utilizzo entrambi i metodi di approccio suggeriti, sia i processi organici, sia l'astrazione di abbinare alle parole un colore, un suono, un animale, ecc. In maniera semplificatoria direi che uso l'approccio organico quando ho un testo molto semplice e quotidiano, e uso l'approccio più astratto quando ho da far dire un testo più evocativo, poetico o simbolico. Ma anche questo non è del tutto vero... Pure la frase “come stai?” può aver bisogno di essere riverberante ed evocativa, con qualcosa che va oltre il significato più diretto, e dunque pure per quella possono essere utili metodi più astratti per aiutare l'attore a trovare il giusto modo di dire quelle parole. Per contro è vero che testi poetici ed evocativi hanno spesso bisogno di concretezza, che è alle volte è quasi meglio aiutare l'attore a basarsi su metodi di ricerca della giusta vocalità che utilizzino i più elementari processi organici, magari chiedendogli di mettere la testa dentro un secchio o di dire quelle parole da cento metri di distanza. Non è poi detto che tutto questo finisca concretamente sulla scena, magari ci rimane soltanto come “ricordo esperienziale” dell'attore.

 5. La mia scrittura scenica nasce quasi sempre da testi letterari, che io – assieme a Lucia Franchi - trasformo in una serie di situazioni. Ho lavorato così su “Robinson Crusoe” di Defoe, su “ La Peste ” di Camus e sul poema “Il Galateo in bosco” di Zanzotto. Di solito chiedo all'attore di leggere il testo letterario di partenza ma quasi mai, durante i giorni di prova, rivelo all'attore lo specifico brano o passaggio del testo letterario su cui stiamo lavorando in quel preciso momento. Piuttosto gli presento la situazione che sto cercando (es. c'è qualcuno che ti sta inseguendo…) e chiedo all'attore di reagire a questa situazione, improvvisando.Questo significa che io ho un canovaccio scritto, magari non di parole (ma alle volte pure di parole), ma soprattutto di azioni che ho in mente, o comunque ho una sequenza di situazioni in cui "mettere" gli attori. Dopodiché questo mio canovaccio viene confermato o alterato da quello che gli attori mi propongono sulla scena. E da lì - sempre insieme a Lucia franchi – “cucio” la struttura dell'opera.

Ilaria Drago

Il teatro; rituale, verità, emozioni, sporcarsi le mani. Non esistono compromessi . "…niente come il sogno è in grado di illustrare con altrettanta immediatezza l'unità che in ultima istanza sussiste tra l'essenza fondamentale del nostro io e quella del mondo esterno" ( L'arte di invecchiare Schopenhauer). Se sono qui a vivere, non è forse giusto che io, senza paura, viva? Il teatro e la poesia non sono separati dalla vita quotidiana. Non lo sono tutte le forme d'arte e la Bellezza. Questa drastica separazione compiuta un giorno o avvenuta lenta in questo tempo tanto ignorante è come avesse reciso in noi la linfa della vita, la capacità creativa, il femminile relegandoli nella miseria di un buio mortificato e schernito dal potere.

Fare arte è un atto politico. La creatività tutta mette in crisi il potere. L'artista esprime il diritto di tutti gli esseri viventi a essere visti come degni di vivere.

È nell'occasione unica del gesto irripetibile e sincero, nell'anima che scocca la sua freccia al petto di chi osserva e lo investe, lo tramortisce, lo invita a guardare oltre il gioco quotidiano, lo fa sorridere, lo acquieta, è in quel momento che il teatro rivela la sua presenza. Una presenza di essere vivente a sé stante. L'opera d'arte si manifesta intera senza neanche più necessità dell'attore, del danzatore, del regista – eppure organi tutti indispensabili alla vita di quell'essere stesso! - come li avesse superati o inglobati per mirare soltanto alla Bellezza, per mostrare un sottilissimo squarcio di Creato, o semplicemente per dire quel quid che non si vuole vedere, che si vuole tacere. Per necessità animale, per una specie di bestialità d'amore impossibile da trattenere… per questa domanda che forse non avrà mai risposta si vive l'arte.

Pratico un teatro d'autrice. Quello in cui scrittura, messa in scena, interpretazione sono corpo unico. Compio il teatro che non risparmia, che ha bisogno dell'operaio che agisce ogni giorno per un lavoro certosino, visionario, poetico, tragico, comico e rituale; per incarnare la voce dimenticata, la voce di chi non ha voce, la voce di una verità possibile, in cerca di una verità forse ineffabile che tutta si sente però scorrere come linfa nelle vene o la si vede improvvisa nei colori di un cielo rosso arancio. Non c'è intrattenimento in questo tipo di percorso. Ogni sera bisogna che venga vissuta la storia e ogni sera qualcosa muta. Il percorso di ricerca non può restare pulito. Bisogna sporcarsi le mani, scendere a guardare, bisogna prendere in mano lo specchio e puntare gli occhi come a scavarlo fino a che non si sputi fuori l'anima, non si riveli con voce profonda quali corde suonare per quello o quell'altro personaggio. In questo che io chiamo servizio nella sua accezione più bella verso se stessi e gli altri, necessita un'attenzione rara, serve la sfida, serve la capacità di farsi strada, di lasciare che le cose ti attraversino per poi dirle, suonarle, danzarle, cantarle con voce altra fatta di carne e sangue e tutte le emozioni possibili. In scena occorre l'equilibrio fra la rappresentazione e la verità perché ogni rappresentazione non sia mai replica , ma vivente ogni sera, ogni giorno. Non sono una replicante ! In questo senso l'arte, il teatro, la poesia divengono un rito in cui chi agisce la scena, da vivente, divenga strada o letto di quel fiume di forze ordinarie e straordinarie che lo attraversano, perché il pubblico possa guardare o guardarsi e cogliere un lembo di memoria. Perché il pubblico si senta anch'esso vivo.

Il teatro è un atto d'amore. Scava nella vita, succhia dalla vita e poi ridona se stesso, trasformato, alla vita; e lo fa con i suoni, con il sudore e la paura, con la voce raschiata o limpida, con il sorriso e le lacrime che tagliano il viso, con i suoi bui, e i suoi disegni di luce. E lo fa perché lo spirito si possa risanare, elevare anche… se possibile. E lo fa prendendo un attore, scaraventandolo con tutte le sue incertezze in un rettangolo ritagliato nel legno e chiedendogli di separarsi dal suo ego-centrismo per appropriarsi di quel che di profondo comune a tutti. Un emozione, un sentimento, un archetipo. E per questo un attore dev'essere onesto, sincero: deve attingere ad un sapere universale che gli risiede dentro, che sta nascosto e sepolto dietro infinite maschere, resistenze o narcisismo; per trarla fuori da sé quella sostanza deve schiantare la sua immagine di sempre fino anche a sconcertare se stesso.

Non si deve mentire. Inginocchiarsi, strisciare, rialzarsi, danzare, saltare, gridare, ridere, sperare, gioire… non mentire. Se lo si fa è come insultare il cielo e tutto il divino in noi. E infine sarebbe come dire al pubblico “tu non esisti, io non ti rispetto!” Bisogna sapersi abbandonare ed essere tizzoni ardenti d'amore. Orientati verso la vita ad ogni costo perché non c'è costo peggiore che essere morti in vita, addormentati!

Lamberto Pignotti

Le performance e le “poesie in azione” datano dalla metà degli anni '60, e tedono a coinvolgere attivamente lo sperttatore in senso plri-sensoriale. Oltre alla vista e all'udito voglio chiamare in causa il gusto, il tatto e l'odorato – i senso meno utilizzati dalle arti – facendo interagire possibilmente più di un organo sensoriale. Al senso del gusto sono state ad esempio dedicate le Ostie commestibili su cui scrivo in varie lingue la parola “poesia”, i Cheving poem, gomme di poesia da masticare, i Sweet poem, “dolce di poesia” o “poesia dolce, che il pubblico può gustare in varie versioni. Al gusto sono dedicati anche gli Spalsh poem, sorta di composizioni ottenute strizzando tubetti di paste alimentari su vari supporti: maionese, pomodoro, acciughe, salse di diverso sapore e colore. Alcune varianti più spettacolari si possono ottenere con particolari Telebanchetti, usando come superficie grandi televisori accesi posti orizzontalmente come tavole su cui vengono imbanditi tramezzini, salatini, pizzette, dolcetti e altro ancora. Anche più spettacolari possono risultare dei corpi nudi sdraiati a supporto di cibi analoghi. Al tatto sono dedicati i Touch poem, palloncini con la srita “Poem” che riempiono un ambiente – stanza , corridoio, ascensore, cabina telefonica, tram, pulman, ecc. – che lo spettatore deve attraversare toccando, strofinando ( ed evetuamente anche rompendo… ) appunto, siffatte poesie. Altra performance di questo ambito ha per titolo Non calpestate l'arte, se potete, ed è concepita sparpagliando in prossimità di un passaggio delle piccole riproduzioni artistiche che lo spettatore può o meno calpestare con le scarpe o a piedi nudi. Al tatto + connesso anche un altro tipo di Touch poem, espressione che va scritta su dei guanti trasparenti, infilati per carezzare ( o eventualmente schiaffeggiare) qualcuno del pubblico. Al senso dell'olfatto sono dedicati Parfum poem, performance variamente scritta con petali di fiori odorosi, e Happy end, in cui, alla fine di una serie di “azioni” viene per così dire “depurata” l'aria con degli spray profumati.. In questa sfera s'inseriscono anche i versi e le parole che scrivo su dei fazzoletti intrisi diessenze odorose. Per stimolare l'udito mi avvalgo di filastrocche, interazioni, onomatopee, non sense, espressioni sibilinne, parole in libertà, prelevate da autori classici e delle avanguardie novecentesche. Il senso della vista, che naturalmente è coinvolto anche nelle performance sopra tratteggiate, è esplicitamente richiamato nella perfomance egocentricamente e iperbolicamente intitolata Lamberto Pignotti scrive versi immoratali, in cui scrivo su un pannello con spray clorati versi classici fra i più orecchiati in varie lingue. Versi del genere possono essere scritti con grossi pennarelli su televisori accesi con, con immagini fisse e predeterminate, o in movimento. Le performance menzionate sono state effettuate in gallerie d'arte, piazze di festibval, biblioteche, locali notturni, vie cittadine, pasticcerie, aule universitarie, caffè letterari, scuole di vario ordine e grado, , stazioni, librerie, autobus, case del popolo, sagrati di cattedrali, treni, aule magne, antri di sibille, musei, chiostri, solfatare, saloni d'albergo, scantinati, cenrisociali, ridotti, chiese consacrate e sconsacrate, teatri, ristoranti, giardini, enoteche, studi televisivi. Alcune di queste performance sono state attuate nel corso della manifestazione Arte in transito, Roma 21-27 ottobre 2002, a cura delk centro nazionale di Drammaturgia - Teatro Totale.

Werther Germondari

1. L'attore interpreta e agisce nell'ambito dello Spettacolo, mentre il performer agisce o interpreta nell'ambito delle Arti Visive. La differenza è data solo dallo ‘spazio' artistico in cui di volta in volta operano. Beninteso, lo spazio non va interpretato come fisico, ovvero, può capitare che un attore faccia Spettacolo al di fuori di uno spazio convenzionalmente considerato luogo per spettacoli (Teatri, ecc) così come invece può capitare che il performer operi in teatri pur presentando azioni di Arti Visive. È solo una differenza progettualmente mentale .

2. Proprio prendendo spunto dal finale della risposta alla precedente domanda posso dire che personalmente io lavoro come uno studio di ‘architettura concettuale', in cui si progettano ‘riflessioni (e forse anche rifrazioni…) mentali' in forme che vanno dal disegno alla fotografia, dal video alla performance, ma anche al cinema, senza predilezioni per qualche mezzo in particolare. Tutti i miei lavori nascono da un'idea totalmente astratta, come il primo schizzo di un architetto. Solo lo sviluppo progettuale successivo (che dura spesso anche molti anni) porta a concludere in quale ‘forma' tale idea verrà realizzata. Se arrivo a realizzare l'idea come performance è semplicemente perché ritengo tale forma la più efficace per quell'idea. Riguardo la realizzazione ogni caso è diverso, ma quello che posso sicuramente dire è che cerco sempre di usare meno mezzi possibili, sottraendo tutto il superfluo, affinché il messaggio finale risulti il più chiaro possibile.

3. Fare performance aiuta a ribadire il concetto che nell'ambito della ricerca di un artista d'arte contemporanea non esistono confini spaziali o temporali per realizzare un'opera.

4. Sicuramente il mio tipo di lavoro, progettuale e concettuale, mi porta ad avere come riferimento più vicino i processi di astrazione.

5. A seconda del progetto e della presenza o meno di un testo linguistico il lavoro con l'attore o il performer è diverso. Dovrei analizzare caso per caso, opera per opera.

Simona Lisi

1. L' attore interpreta un personaggio che agisce in un certo tempo e in un certo spazio, il performer “è” sé stesso nelle diverse declinazioni, nel tempo e nello spazio dell'attualità. Un attore in genere studia per fare in modo che il suo corpo e la sua voce “rappresentino” e si “trasformino” in un certo personaggio, senza il personaggio l'attore non esiste, diventa performer . Se anche un attore mette in scena sé stesso lo fa come personaggio. Il performer invece parte dalla sua presenza per creare stati e situazioni differenti legate al tempo e allo spazio della performance appunto, che ha nella estemporaneità uno dei suoi tratti fondamentali. Questo non significa che l' attore studia per diventare tale e il perfomer no, ma che si formano in due modalità differenti. L' attore deve essere pronto a lasciar cadere il proprio ego per far posto al personaggio, e questo richiederà tutta una vita per imparare a farlo, oltre a potenziare la voce e il corpo, cioè i propri mezzi espressivi; il performer lavora invece sulla creatività corporea nello spazio e nel tempo, e quindi oltre a lavorare sul corpo e la voce, senza dover raggiungere vertici virtuosistici, affida il suo fare anche ad altre coordinate espressive, usando anche modalità tipiche della performance artistica o della body art, in una modalità situazionistica che include lo spazio, lo spettatore, la plastica e l'estetica della scena. Queste sono anche modalità che possono appartenere all' attore “creativo”, cioè l'attore che non è solo un puro interprete, ma che è anche creatore delle sue interpretazioni, sostituendosi in qualche modo al regista nella concertazione dei diversi elementi scenici.

2. Io non faccio performance in genere, ma spettacoli. Ovvero mi riconosco in un atto teatrale che sia frutto di uno studio, una preparazione, un percorso lungo e articolato che parta da un'idea, un testo, una musica, una danza per arrivare all'azione concertata attraverso uno o più personaggi, che sia danzato o recitato non cambia molto. Ho partecipato ad azioni che possiamo chiamare performative ma non erano di mia concezione.

3. La performance si situa nel tempo e nello spazio del contemporaneo per la “liquidità” dei suoi confini. Non è precisamente uno spettacolo, non è una improvvisazione ma qualcosa che sta in mezzo a queste due modalità di azione scenica. Quando parlo di liquidità dei confini mi riferisco alla definizione di società liquida di Zygmunt Baumann, una società veloce, senza confini appunto, con un passaggio liquido da una comunicazione all'altra, da una funzione all'altra, da un'emozione all'altra, da un ambiente all'altro. In questo senso la performance (nata alla fine degli anni '60) è profondamente radicata nella polis contemporanea perchè, in questo tempo liquido, ma a volte anche frammentato, tutto avviene nel presente, la memoria non ha spesso ragione d'essere, il futuro è talmente incerto che è preferibile coglierlo come atteggiamento (una certa ansia di un continuo domani) che come prospettiva. Il performer agisce nel “qui e ora” , cerca di cogliere gli aspetti cruciali del tempo presente e li trasforma immediatamente in azione scenica, il più possibile collettiva, nel senso di atto che collega le persone, l'ambiente, le diverse arti. E' forse il tipo di azione artistica che più rappresenta la polis contemporanea, un insieme di individui isolati, compressi in azione collettive, senza una comunicazione reale e profonda(penso alla rete, ai grandi luoghi di aggregazione, alle isole commerciali).

4. Io credo che ogni attore/danzatore abbia una sua metodica che deriva dall'incontro delle sue esperienze formative più importanti e dalle esperienze personali e sensoriali che ha avuto nella sua vita. Per quanto mi riguarda, il testo e il contenuto che voglio trasportare allo spettatore è spesso l'origine di tutto. Dipende però dalla forma che ha questo testo, se poetica o narrativa, se astratta o realistica, il modo in cui lo andrò ad affrontare. Non faccio mai un'analisi testuale grammaticale ma mi affido di più alle sonorità, del testo, al ritmo. Il nucleo di significato mi colpisce solo all'inizio quando mi colpisce per una certo messaggio e una certa musicalità d'insieme (e in questo senso diventa la motivazione fondante del lavoro) e poi solo in seconda istanza quando mi chiederò cosa voglio trasmettere nello specifico con questo lavoro. Questo perchè la mia è una forma di teatro-fisico che muove dalla musicalità interna che unisce testo, personaggio, movimento e parola. Se mi fermo all'analisi razionale del testo, a cercare di capire le motivazioni dell'autore e del personaggio, non riesco a muovermi con fluidità in quel terreno per me fertile che passa dalla parola al gesto, all'immagine, passando per la musica. Questo passaggio, per me fondamentale si fonda su connessioni profonde, organiche sempre, ma anche musicali, ritmiche, immaginarie. Fermare tutto questo con un'analisi razionale non risuona con le mie corde espressive, non dico che sia sbagliato ma non mi appartiene metodologicamente. Questo non significa che io non approfondisca lo studio di un testo e delle sue connessioni storiche, sociali ed estetiche, ma lo farò in modo non intenzionale, lasciandomi scorrere tutto il materiale di supporto all'idea principale per poi far “digerire” al mio corpo le informazioni raccolte.

Per quanto riguarda il mio approccio al personaggio, sono stata molto influenzata dall'incontro con il metodo di Thierry Salmon, che ho avuto la fortuna di incontrare prima che morisse, anche attraverso i suoi attori. Per me il suo metodo è stato la chiave per passare dalla danza al teatro in modo organico. Ovvero per me il passaggio delicato dall'azione danzata all' azione del personaggio che parla, si muove, entra in relazione è stato possibile solo attraverso l'individuazione di processi di modificazione interna. Cerco una sorta di alchimia interiore che mi permetta di far posto a un'altra modalità di percezione del reale e delle emozioni correlate. Ho iniziato la mia formazione artistica con la musica, poi come danzatrice contemporanea, ma ho sempre ricercato la totalità dell'essere scenico. Voglio essere un interprete/autrice, non un'attrice o una danzatrice, in questo influenzata dagli studi filosofici e storici (l'attore greco era appunto l'interprete) e dall'incontro con i testi di Antonin Artaud. La sua immagine dell'attore come “atleta del cuore” mi ha colpito molto ed è sempre in vicino al mio modo di avvicinarmi al lavoro. In questa prospettiva si inserisce anche il mio training attoriale, quello che pratico e che insegno, diventare allenati a rispondere alle emozioni. Questo è possibile perchè abbiamo un corpo che ci permette di fafre questo, attraverso una consapevole modificazione degli stati interiori. Attraverso il cambiamento di stato, tutto è possibile, il cambiamento di voce, del tono energetico, della qualità di movimento, che non possono essere indossati come un vestito, ma essere assunti da dentro . Per arrivare a questo bisogna lavorare molto, innanzitutto per “svuotarsi” di ansie da prestazione, di vizi posturali, di atteggiamenti comportamentali e così via, per poi “riempirsi” di nuove informazione, di input sensoriali differenti, di un centro corporeo sostanzialmente differente. Questa trasposizione immateriale, perchè nulla si modifica in realtà, è ciò che rende l' attore e il danzatore un medium comunicativo esemplare , non perchè sia stra-ordinario ma perchè diventa ciò che ogni persona è, ovvero un organismo complesso, composto da un insieme di cellule, capace di trasformarsi e di essere attraversato da qualsiasi emozione senza soccombere, rimanendo sé stesso nella sua identità fondante. Ed è ciò che ammiriamo nell'attore, non il vocione impostato, né la superbia del mattatore, ma questa capacità di trasformazione magica che riconosciamo anche in noi. Per fare questo ci vuole molta umiltà e molta dedizione. Non credo si finisca mai di imparare, non ad essere attore ma a svuotarsi di sé per diventare qualcos'altro, perchè l'ego interviene sempre a deviare il percorso onesto e umile verso il personaggio.

5. Lavoro sulla preparazione di un corpo duttile, innanzitutto. Per questo inizio sempre da un training che parte dall'analisi di alcune coordinate di base per poi affrontare temi e elementi più complessi. Un lavoro che sto affinando negli ultimi anni (insegno infatti drammaturgia corporea) in cui spesso inserisco elementi di movimento somatico e anatomia percettiva, lavorando molto sugli “stati”. Se parto da un testo lo uso come materiale di gioco, come materia di canto, di movimento attraverso cui allargare le trame interpretative, creative e di significato, per cercare nuclei di senso primordiali e immediati che entrino nella sfera percettiva e somatica dell'attore, non solo in quella razionale/analitica. In questo modo l'attore avrà acquisito una globalità di informazioni esterne e interne che gli permetteranno di costruire una presenza in scena stratificata, complessa, centrata e aperta al tempo stesso alla percezione dell'ambiente e degli altri. Mi piace pensare che la scena sia un luogo privilegiato dove allenare il materiale umano, fatto di carne e intelletto, di cuore e ragione per cercare non di diventare dei super-uomini ma dei medium di comunicazione unici e raffinati. La scrittura scenica può nascere dal testo, ma più frequentemente dall'insieme di immagini, parole, musiche, movimenti , suscitati da quel testo, che andranno a costituire la drammaturgia visivo-sonora del lavoro. Non escludo di lavorare sul testo linguistico nella sua interezza e completezza, sarebbe anzi una bella sfida cercare di renderlo organico e funzionale al tempo e allo stato presente, ma sono maggiormente attirata da un lavoro fondato sulle associazioni e sulle assonanze di diversi medium espressivi, per comunicare alla complessità percettiva dell'essere umano. In questo il silenzio, la pausa, il non detto, giocano una parte assolutamente fondamentale, così come nella musica. Non credo infatti che, per colpire lo spettatore, la soluzione sia il bombardamento attraverso forti input sensoriali ma un insieme di segni che accompagni le persone lentamente, in modo quasi magico, inavvertitamente, in una profonda esperienza estetica e sensoriale, che solo in seguito potrà diventare anche poetica, politica e sociale.