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Ospitiamo ben volentieri questo intervento sulle poesie di Celan, interpretate da Zahava Seewald, di Girolamo Dal Maso: ciò anche in relazione a nuove categorie teatrali e di scrittura scenica in cui forte è anche la presenza del verso, e della musica.

G. T.

Cantami o diva. Zahava Seewald declama Celan: per un nuovo ephos lirico

di Girolamo Dal Maso

Le poesie di Celan sono come pietre dure, un rosario di parole come sassi posati su un terreno arso e desertico. Pietre piccole, bellissime, strane, lavorate dal tempo, essenziali, dure e splendide. Non di rado spezzate. Non nascondono un mistero al loro interno, “sono” questo mistero detto in una parola che scava su se stessa, che si lascia picconare, erodere dagli elementi atmosferici, che rivela a volte la sua fredda durezza amorfa ma anche inattese vene portate alla superficie.

Una delle introduzioni più belle alla poesia di Celan, uno dei tributi più originali è una citazione di “Tenebrae” in esergo ai “Responsoria” di Carlo Gesualdo nella straordinaria versione dell'Hilliard Ensemble per la ECM. Il canto cristallino, asciutto, diafano rendeva in quel caso una dimensione quasi metafisica di quei versi liturgici per la Settimana Santa, giocando sulla dimensione trascendentale (non trascendente) della dizione poetica. Il canto si raddensava in volute siderali, assecondando la composizione di Gesualdo, tutta sperimentazioni e dissonanze, un lucido delirio.

Anche Celan ha nella sua poesia questa dimensione di lucidità, di rigore, di chiarezza mista però a una componente che la disfa. Si dice e non si dice, si ostenta e si ritira, parla e poi balbetta. Una parola che è insieme forte e fragile.

Dell'andamento liturgico mantiene l'adesione alla realtà, non la fugge, non la razionalizza, non la sublima. La inabita lasciandosene inabitare. Ha un valore di simbolo, nel senso di concrezione reale. Una parola liturgica (ciò che della liturgia resta), metafisica e solida.

Il canto cristallino dell'Hilliard Ensemble fa risuonare la dimensione più astratta, senza farne perdere la consistenza, di una parola resa volute. La poesia è, in questo caso, parola che prosciuga il suono, che lo frange, che crea silenzio fuori e dentro di sè.

Il canto e la dizione di Zahava Seewald sviscera un altro tratto della poetica di Celan, le fa disegnare altre linee.

In “From my mother's house”, in collaborazione con Michël Grébil, per la Sub Rosa, vengono declamate quattro poesie di Celan. Il cd ha un respiro più ampio, testimoniando una riscoperta più ampia della poesia yiddish. Oltre ai versi di Celan sono riportati testi di Leyer Aychenrad, Charlotte Delbo, Rose Ausländer, Abraham Sutzkever, Moyshe-Leyb Halpern e Lea Goldberg. Il progetto riesce ad essere profondamente unitario e coeso, pur giocando (anzi: proprio giocando) su trapassi, sovrapposizioni, giustapposizioni. Liriche e monologhi (quasi domande al vuoto), strumenti antichi ed elaborazioni elettroniche, melodie e rumori, lingue diverse, sonorità tradizionali ed elettroacustiche: sono tutti strumenti a servizio della poesia, che si fanno poesia con la poesia.

Ma veniamo al Celan di Zahava Seewald.

Il suo è un concepimento più che una concezione della parola poetica, un riportarla alla vita più che al concetto, un farla vibrare e respirare. Una parola “respiro” (“nefesh” in ebraico, parola chiave dell'antropologia ebraico-biblica), una vita che soffia da dentro e fuoriuscendo si dice e, nello stesso tempo, si perde e si esaurisce. Un parola che viene da dentro ma che è fuori, che attraversa la carne, i nervi e le viscere. Una parola anche solitaria, sebbene sempre inserita in un contesto, che può essere un brusio, un rumore, un canto, un deserto, una canzone del passato.

Una poesia legata alla dizione, al soffio che le da vita, alla voce che pur attraversando lo spazio non si disperde, nè sembra distendersi, ma piuttosto raggrumarsi, delimitarsi, circoscrivendosi uno spazio fuori dal quale non esce e non è. Una parola fragile e forte.

Il duduk, un flauto dal suono solitario dolcissimo e struggente, esprime e accompagna questo tratto “spirituale”, nel senso di soffio vitale, della parola. Ma c'è anche un'altra dimensione che Zahava Seewald insuffla nei versi di Celan. Se essi sono pietra e soffio, sono anche carne. Terra, fango e polvere: così troviamo in “Psalm”, citazione cruciale che richiama – ancora una volta – l'antropologia biblica. Un uomo impastato di polvere, quasi nulla, eppure c'è, eppure sta. Un fiore fragilissimo, di nulla e nessuno, di spina, che a fatica si eleva. Ma si eleva, anche se colorato di sangue, anche se in un deserto. Fiore fragile come la carne, corolla che accoglie il nulla nel suo vuoto aprirsi. Qui sono gli archi e il piano a creare il corrispettivo musicale della parola poetica. Si tratta di tocchi alla Feldmann, dissonanti e tesi, ma non agitati, leggermente meno astratti, leggermente più sfatti, secchi e malinconici.

Una parola che non cessa, nello stesso tempo, di confrontarsi. Zahava Seewald mischia francese, tedesco, inglese, yiddish alla ricerca di una identità composita. Richiama così il percorso, storico, culturale ed esistenziale, oltre che poetico, di Celan, ebreo di madrelingua tedesca, nato in Bucovina e trapiantato a Parigi, dove scrive nella lingua, quella materna, di coloro che hanno ucciso i suoi genitori.

Così “Fadensonnen” inizia con una voce fanciulla su un tappeto di fiati (flauti) trapassati da una scossa di rumore, un ronzio metallico che si squaglia in un gocciolio, declamando un testo in francese. Bellissimo il trapasso a “Kristall”, introdotto da una linea sonora come un tappeto, su cui si eleva – orante – il canto di Zahava Seewald. I “filamenti di sole”, le “melodie da cantare” di “Fadensonnen” trovano qui espressione, anche se attraversate, ancora, da una drammatica incursione rumoristica che, a sua volta, si scioglie in un vecchio canto, quasi un lied, da lontano.

Poesia come delicatezza e discrezione per reggere il dramma, che apre la via della bellezza anche in luoghi (e parole) inospitali e ostili. Decantate, queste parole rimangono quali testimonianze di cosa resti di un uomo. Al riguardo è da segnalare come la versione di “Corona” sia introdotta e conclusa da una registrazione della voce di Celan. In rete si può trovare la bellissima dizione del poeta per intero, poco più di un minuto. La versione di Zahava Seewald è di oltre 4 minuti, ma tale dilatazione è più uno svisceramento, un lavorio sul tempo e sul suono, che necessita di uno sviluppo, di un accompagnamento, come tocchi di piano, fischio di vento, soffio di flauto, vocio muto. “É tempo che la pietra accetti di fiorire,/ che l'affanno abbia un cuore che batte./ É tempo che sia tempo.// É tempo”. “Es ist Zeit” ripete, alla fine, Celan, lui, la sua voce. Un tempo scandito dalla poesia, che crea attorno a sè – attraverso questo tempo – il suo spazio, anche sonoro, un “concetto artistico e musicale” (queste le credenziali che accomunano Zahava Seewald e Michël Grébil nel booklet).

Infine, non è impossibile rintracciare rimasugli teologici in questi sassi ora opachi ora luminosi. Oltre al già richiamato “Tenebrae”, in cui è il Signore a essere pregato di pregare, tra luccichio e sangue, alterità e vicinanza, possiamo ricordare “Mandorla”, dove, al cuore della mandorla, ritorna (anzi: è custodito) il Nulla: “Lì sta il Re, il Re./ Lì sta e ristà”. O anche “Schneid die Gebethand”: “Recidi la mano orante/dall'/aria/con la forbice/degli occhi,/mozza le sue dita/ col tuo bacio:// fanno restar senza fiato, oggi,/ le mani giunte”. E così “Die Pole”: “I poli/ sono in noi,/ insuperabili/ nella veglia,/ noi trapassiamo, dormendo, alla grande/ porta della misericordia,// io ti perdo in tuo favore, è questo / che mi consola della neve,// di' che Gerusalemme e s i s t e, // dillo, come se io fossi questo/ tuo biancore,/ come se tu fossi/ il mio,// e potessimo esser noi senza di noi,// io ti sfoglio, per sempre,// tu ci ottieni, pregando, piegandoci/ a giacere, la libertà”. Di questi versi, in “From my mother's house”, sembrano essere controcanto le parole di Charlotte Delbo in “Rentrer”, sulla libertà e le vie che portano ad essa e da essa si aprono: “Mangiare, dormire, amare/ l'avete al vostro ritorno/ La storia/ É finito/ siate felici come tutti/ La storia / è un momento / ora è la vita./ E perchè dunque volete ritornare?/ Uscire dalla storia per entrare nella vita/ provateci dunque e vedrete”. Vengono a mente anche le parole di Hetty Hillesum, indomito inno, fragile e coraggioso, alla speranza e alla vita nel mezzo del più tremendo orrore. O, per venire ai versi citati nel cd, “il cuore splendente” di Abraham Sutzjever, “la bellezza dell'oceano” di Moyshe-Leyb Halpern o la “bellissima madre” di Lea Golberg.

Una parola trasfigurata, non abbellita. Di pietra, di carne, di luce. Di vita e di morte.

Amen.