Uno spazio relazionale: lo spettacolo Soli di Ateliersi di Paolo Ruffini

Foto di Giovanni Brunetto

Il tema del lavoro è stato ed è una costante di quel teatro che cerca di cogliere nell’incommensurabile verità del quotidiano una opportunità scenica, una modalità spesso rivelatasi in passato cruccio civile a ridosso del solo esercizio testuale e di un certo “stilismo” d’attore. Al di là dell’eclatante successo del cosiddetto teatro di narrazione che ne ha monopolizzato i contenuti e veicolato un’estetica nel decennio successivo a quello della metà degli anni Novanta, il teatro politicamente e dichiaratamente orientato ha contribuito non poco a rielaborare storie del lavoro, anzi a farne emergere di non conosciute negli scranni del disagio sociale, ed è finalmente riuscito a collocarsi negli ultimi anni in quel preciso cuneo linguistico proprio ai processi dell’arte visuale e performativa, proponendo così una ulteriore percezione dello spazio agìto per lo spettatore, una declinazione dei fenomeni osservati e “raccontati” multi-identitaria e amplificata rovistando nelle materie e negli aggregati umani e politici di diverse sensibilità e appartenenze. Dalle morti bianche di Rose Rosse Internazionali ai traumi territoriali di Arkadi Zaides (per esemplificazione due emisferi opposti), il politico e il lavoro sono concetti che si sono accompagnati incorporando uno spazio terzo dichiarante e documentale oltre la sfera della “rappresentazione”, che ormai non è più né orienta se non in una vulgata da fiction. Il gruppo Ateliersi basato a Bologna si muove da tempo in questa diagonale, in quello spazio terzo dove lo spettatore diventa figura testimoniale rielaborando temi e storie per radicalizzarne i presupposti dentro un portato reale, ovvero prossimale allo spettatore stesso, affinché questi ne condivida la precarietà. Lo spettacolo Soli si fa carico di indagini e incontri e al contempo trattiene la matrice letteraria del pirandelliano Pensaci Giacomino! come radici di una scrittura scenica che si evolve altrove e altrove configura una diversa, nuova opera; procede per incastri e stratificazioni nell’andamento apparentemente lineare di una storia contemporanea di ieri quanto di oggi, una delle tante che si lasciano condurre nell’anonimato e nella solitudine. È la storia di un incontro e di un altro ancora, del coraggio inaspettato e sorprendente, della solidarietà in un mondo di avvoltoi, di un destino impervio dietro l’angolo. Anime lasciate vivere nella sofferenza di un quotidiano mancante, immoto, definito nel non-racconto, nella struttura di una forma-spettacolo che prende fiato e si dipana tassello dopo tassello sino alla con-partecipazione dello spettatore, lì a mettere in gioco una parte di sé nell’aggiungere dettagli o aneddoti personali. La ricomposizione del testo di Pirandello è, di fatto, una cornice entro la quale tre persone si fanno carico di esistere lasciando alla deriva il personaggio, cucitura drammaturgica – questa – imbastita dalle figure in scena che “lavorano” sulla proiezione possibile di una condizione, di uno stato d’animo.

 

Foto di Luca Del Pia

 

Lo spazio scenico ha la disposizione di un cantiere in atto, sul fondo un banco con carte e documenti, il luogo della memoria forse dove si vanno a ricercare le norme motivazionali da contraddire o a depositare il ricordo sfumato di una vita; sulla parte opposta sempre sul fondo un dj set con un musicista che sostiene il ritmo quasi a sottolinearne una tensione “concertistica”. Al centro della sala (siamo all’Angelo Mai di Roma), ma la disposizione potrebbe assumere altre combinazioni da quella frontale, un tavolo con sedie anche questo illuminato da una lampada dall’alto, dove Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi in quell’impeccabile lavorio sulla parola adagiata nel vero, nella verifica di un vero delle intenzioni, argomentano sulla vita e sulle derive delle tre figure avvolte in questa storia del nostro tempo ma che ha l’eco del racconto pirandelliano e confligge con esso. Serti professore all’università di Bologna ormai vedovo e solo propone ai giovani Cristian e Cristina di condividere la vita con lui, nel suo appartamento. I due vivono come sbandati in una città non curante come tutte le metropoli di un Occidente distratto benché opulento; senza lavoro, solo una saltuarietà che non permette loro di trovare il fiato giusto per una vita dignitosa, trovano riparo occasionale in luoghi di fortuna, conducono un’esistenza come molte sul filo di un definitivo trapasso verso l’abisso in cui, appunto, il concetto di dignità assume una soggettiva visione del mondo, anche estrema. Quest’uomo anziano e profondamente umanista sa di non poter vivere a lungo, probabilmente nella solitudine riesce a ritrovare quell’etica sociale che ha da sempre connotato la sua esistenza, uno scatto di resistenza verso se stesso e verso quel mondo ontologicamente impotente a legittimare il suo esistere, non risponde e non dà voce al dramma dei due giovani. Sceglie allora di accoglierli e di farsi carico del nascituro che sta per arrivare contro tutto e tutti, il suo sguardo è lo stesso dei due senza alcun fingimento, le loro vite sono quelle di molti che nel paradosso della finzione scenica ci ricordano quanti di noi saremmo in grado di compiere quello stesso gesto? Serti è il paradigma delle nostre motivazioni come Cristian e Cristina sono i nostri invisibili ai margini delle strade. Soli è quello spazio relazionale della scena che avverte l’urgenza di modulare una ri-mediazione dalla matrice letteraria e rendere attuale un inceppo del linguaggio, un crash tra vero e archivio, tra letteratura e indagine su un particolare gruppo sociale. Soli è un lavoro politico.

Foto di Luca Del Pia

Soli

di e con Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi
e con Margherita Kay Budillon e Eugenia Delbue, Lorenzo Righi, Esther Silverio
musiche composte ed eseguite da Vincenzo Scorza.

Angelo Mai, Roma, 11 e 12 aprile 2019.