Il grido di un animale morente: Marguerite Duras e il dolore dell’attesa di Carolina Germini

Il Teatro di Villa Torlonia di Roma ha dedicato l’intero mese di marzo all’attrice Elena Arvigo, la quale ha messo in scena tre testi formidabili. Il trittico Arvigo si è aperto il primo marzo con 4:48 Psychosis della drammaturga inglese Sarah Kane, è proseguito con Il dolore della scrittrice francese Marguerite Duras, andato in scena dal 23 al 24 marzo, e si è concluso con Una ragazza lasciata a metà della drammaturga irlandese Eimear Mcbride il 30 e il 31 marzo.
Il dolore: diari della Guerra – primo studio di Marguerite Duras si colloca quindi al centro di questo movimento. È uno spettacolo raccolto e intimo, come ogni forma diaristica. È un testo fortemente autobiografico: è il diario che la Duras tenne a Parigi mentre aspettava che il marito, Robert, deportato a Dachau, tornasse a casa. Robert e Marguerite sono entrambi membri della Resistenza. Nel 1944 Robert viene deportato dalla Gestapo e Marguerite farà di tutto per salvarlo.
Questa attesa taglia via ogni scansione temporale. C’è un unico tempo: il presente, che non conosce altra dimensione al di fuori del dolore. Beckett ci insegna quanto l’attesa sia paralizzante. In un tempo immobile l’azione diventa statica. I personaggi beckettiani non sanno cosa aspettano, se Dio, la Morte o il Nulla. La loro può essere definita un’attesa metafisica. Quella che vive Marguerite Duras nel suo diario è diversa. Lei conosce l’oggetto della sua attesa e teme di non rivederlo più.
Lo spettatore è trascinato in un salotto parigino che somiglia, per il modo in cui l’Arvigo vi si muove dentro, più a una gabbia che a una casa. Eppure da quello spazio angusto non ha voglia di uscire né riesce più a mangiare. Tutto ciò che rimanda alla vita, i lunghi Boulevards, la Senna, il divertimento delle strade parigine, non le sembrano più avere motivo di esistere. In fondo siamo alla fine della guerra e le persone provano a tornare alla normalità. Ma per Marguerite, che ogni giorno aspetta notizie di e da Robert, non è possibile. Lei è come un pendolo che oscilla tra la convinzione che il marito sia morto e la speranza che in qualche modo sia riuscito a salvarsi.
I gesti ripetitivi e ossessivi a cui assistiamo sono l’espressione di questo dolore. La donna, indossa il cappotto, poi lo sfila e lo rinfila, come un animale che si vuole disfare della corazza. Questa serve per il mondo là fuori ma per lei, che non conosce altro che la sospensione, indossarla non ha più senso. Non si nutre più di niente se non delle notizie che riceve e di cui va in cerca. Gli unici luoghi in cui si reca sono i centri di smistamento. Ma di Robert lì non c’è mai traccia. Poi un giorno arriva la notizia: Robert è vivo! È vivo! È vivo!
L’Arvigo, che per tutta la prima parte dello spettacolo è irrigidita dal suo dolore e si muove e parla a fatica, improvvisamente si libera. Questo grido è quello di un animale morente, che riesce ancora per un istante a immaginare la vita.
Non c’è mai fine a questa attesa dilaniante. Robert è vivo sì ma ha contratto il tifo. La malattia lo sta divorando, riducendolo a brandelli, esattamente come il dolore fa con Marguerite.
Un diario non andrebbe mai letto. Appartiene soltanto a chi lo scrive. Ma quando invece questo accade, l’ascoltatore sente di violare uno spazio intimo.
Il dolore di Marguerite appartiene solo a lei e cresce ogni giorno, come un essere che prende vita.
Marguerite somiglia molto in questo testo a Penelope in attesa di Ulisse, che fa e disfa la tela, così da far credere ai pretendenti che non sia ancora pronta. L’Arvigo indossa il cappotto e poi lo toglie. Anche lei in questa ripetizione sta fingendo di essere ancora viva.

Il dolore: diari della Guerra – primo studio

di Marguerite Duras
diretto e interpretato da Elena Arvigo
regista collaboratrice Virginia Franchi
contributi fotografici Damiano D’Innocenzo

Teatro di Villa Torlonia, Roma, 23-24 marzo 2019.