Una solitudine troppo rumorosa: Luciano di Danio Manfredini di Paolo Ruffini

foto di Armunia

Danio Manfredini è una di quelle figure nel panorama del teatro italiano che travalica il confine percettivo dell’esperienza scenica e incontrare i suoi lavori, di fatto, per lo spettatore, significa dover scardinare gli abituali codici interpretativi o “fare lo sforzo” di doversi riposizionare in un meta-tempo immaginario, originario e lirico quanto tempestoso, colorato da storie attuali sebbene mantengano l’allure esistenziale e profondamente archetipica di uno spazio mancante, ch’è stato e non è più. Considerato da molti un maestro (e in particolare dai più giovani che ne imitano una certa tendenza maudit figurale), il suo teatro dissemina monconi di vita, rovista nell’intimo e sbriciola la morale; porge così, potenzialmente come fossero a portata di mano per ognuno, distillati poetici qua e là “rubati” nel grande contenitore della letteratura classica e contemporanea (o dalla letteratura teatrale vera e propria), che infine scompone nel sound di canzonette o pezzi rock d’autore, regalando alla densa materia di una parola informe e dolorosa una patina pop. Un riferimento insomma, un artista totemico, un memoriale del teatro.

 

foto di Armunia

È, d’altronde, un artista complesso dedito alla pittura, alla scultura e lui stesso scenografo che ha incontrato le pratiche rigorose di César Brie e di Iben Nagel Rasmussen, ma a segnare un carattere d’attore sempre in bilico fra la precisione compositiva e la patologia dei personaggi mostrati è il suo lavoro di operatore in contesti del disagio. Il gesto si carica di (volute) imprecisioni, sembrerebbe una danza malata, quasi rituale, lì a reiterare con ossessione le geometrie di un affanno alla vita, ogni giorno uguali a loro stesse in quella impossibilità di esperire il desiderio di un affetto, di una gioia amorosa, di una speranza oltre l’emarginazione. Ecco allora corpi deambulanti come zombie che vagano nella notte, ragazzi disponibili al primo offerente o vecchi desiderosi di un contatto umano, postazioni d’abbordaggio in parchi o bagni pubblici, la solitudine interrotta dalle telefonate di una madre ingombrante e apprensiva recuperate dalla segreteria telefonica, ospedali psichiatrici o cinema porno, un universo fatto di buio e monologhi al limite del fiato con le parole che si impastano nella bocca restituendo un suono sordo e commovente. Un urlo, che quando esplode è sordo, strozzato in gola, come per pudicizia, un urlo che ha il riserbo di non disturbare, così abituato a “non esistere”. Questa solitudine troppo rumorosa, parafrasando Bohumil Hrabal, è l’incessante setacciare dei pensieri che si fanno materia, prendono forma sulla scena di Manfredini, ne costituisce la drammaturgia di segni, gesti e fantasmi.
Lo spettacolo Luciano è l’ultima produzione dell’autore-attore, un nuovo tassello in questo andare sul bordo dell’esistenza, ai margini del mondo che diventa pulsione, conoscenza, attraversamento, come i vampiri sono figure che si rianimano in quella tribale ferinità: il parco, il bagno, le stanze evocate condensano la spazialità immaginifica di Tre studi per una crocefissione, dove si presentavano in un appuntamento cristologico le deformazioni di Francis Bacon, la documentalità di Bernard-Marie Koltès e il gender cinematografico di Rainer Werner Fassbinder; ma anche l’autoriflessione sulla propria condizione espressa in Al presente torna nel rovello mentale del protagonista e, infine, quel sesso consumato velocemente e voracemente di Cinema Cielo lascia il segno. Luciano ha la monumentalità di contenerli tutti sintetizzandone il senso, ovvero denunciandone l’”insensata” tragicità dove, come nel sublime del tragico, troviamo l’interfaccia comica di personaggi paradossali (perché veri).

 

foto di Manuela Pellegrini

Le frasi si interrompono, danno conforto al dubbio, uno spazio scenico essenziale con pochissimi accorgimenti (un pezzo di muro con orinatoi o tronchi d’alberi che rimandano alla boscaglia di un parco), tutti i personaggi ma non Manfredini indossano maschere di lattice, potenti nei loro torvi disegni da animali abbandonati a un destino di reietti. Sono gli “ultimi” verghiani, la periferia di Pasolini e allo stesso tempo Un chant d’amour di Jean Genet, oppure il corpo sacrificale del bellissimo Sauvage film di Camille Vidal-Naquet uscito lo scorso anno da Cannes, con il protagonista Léo marchettaro nei sobborghi di Strasburgo, tutti accenti di una desolazione in cui morte e sesso hanno la stessa valenza, identico odore, quello dell’erba fradicia e marcia di un sottobosco che pullula, si muove di esseri anonimi, nell’assoluta invisibilità. Lasciandosi cadere la notte addosso, magari col sottofondo di Where did you sleep last night dei Nirvana. Lui, Manfredini, è il traghettatore, un Virgilio, che ci accompagna nel racconto di quelle anime, in prima persona o con voce narrante si sovrappone alle frasi pre-registrate che si impastano al tappeto sonoro, canticchiando, recitando versi e monologando, anche quando si rivolge agli altri. Spettacolo prepotentemente ipnotico e di grande maestria poetica, come una pala d’altare è un’opera religiosa.

foto di Manuela Pellegrini

Luciano

ideazione e regia Danio Manfredini
con Danio Manfredini, Vincenzo Del Prete, Ivano Bruner, Darioush Forooghi, Giuseppe Semeraro, Cristian Conti
aiuto regia Vincenzo Del Prete
ideazione scene e maschere Danio Manfredini
realizzazione elementi di scena Rinaldo Rinaldi, Andrea Muriani, Francesca Paltrinieri
disegno luci Luigi Biondi
fonico Francesco Traverso
mixaggio colonna sonora Marco Maccari – Peak Studio Reggio Emilia.

Teatro India, Roma dal 26 al 28 febbraio 2019.

Foto di Armunia