Ennesima grande prova di Clint Eastwood ne Il Corriere – The Mule di Ilaria Capacci

Clint Eastwood torna a dirigere e a interpretare un film ispirato ad una storia vera, così come gran parte delle sue pellicole degli ultimi dieci anni da Changeling a Invictus – L’invincibile, da J. Edgar a American Sniper.
Stavolta narra la storia di Earl Stone, un vecchietto ultra-ottantenne (quasi coetaneo dell’attore con le sue 88 primavere) che diventa corriere, the mule appunto, per il cartello della droga messicano. Floricoltore, messo in crisi dall’avvento di internet, Earl Stone si ritrova in breve tempo senza soldi e senza casa (pignorata per debiti) e realizza di non poter nemmeno contare sulla propria famiglia per la quale, lui per primo, non c’è mai stato. Sempre impegnato in gare di floricoltura e con l’associazione veterani di guerra, il protagonista de Il Corriere ha a lungo trascurato la moglie (poi diventata ex) e una figlia ormai adulta, che non gli rivolge la parola da anni. L’unica che continua a nutrire affetto e a mantenere rapporti con lui è la nipote (prossima alla laurea) che vorrebbe sposarsi, motivo per cui necessita di un aiuto economico. Il nonno accetta perciò di trasportare una merce non meglio identificata nel bagagliaio del suo furgone F100, che non lo ha mai “tradito” né è mai stato multato. Un anziano con una guida lenta e tranquilla è l’insospettabile per eccellenza, persino per un agente di polizia infallibile come Colin Bates (Bradley Cooper). Inizia così un’avventura che avrebbe dell’incredibile se non fosse vera: Eastwood e lo sceneggiatore Nick Schenk sono partiti, infatti, dall’articolo scritto da Sam Dolnick nel 2014 per il “New York Times Magazine” che raccontava di Leo Sharp, un anziano diventato trafficante di stupefacenti per il cartello guidato da El Chapo.

 

Oltre alla regia, per il suo ritorno davanti alla macchina da presa a dieci anni da Gran Torino, Eastwood si è cucito addosso i panni di questo coetaneo bianco, repubblicano, razzista e fallimentare come genitore e come marito. Sembra il ritratto dell’americano medio che ha votato Trump alla presidenza degli Stati Uniti al quale peraltro il regista ha sempre espresso il proprio sostegno. Earl Stone ci ricorda un po’ il Walt Kowalski di Gran Torino quando chiama i messicani “mangia fagioli” e i neri “negri”. Diverse sono le analogie tra i due film. In entrambi, Eastwood ha scelto il ruolo del protagonista. Spicca, poi, la sua passione per le Ford (storico marchio automobilistico americano): qui un pick-up F100, lì la Ford Gran Torino del 1972. Inoltre, tutti e due i personaggi sono stati padri assenti e distaccati e ne pagano le conseguenze, anche se Earl Stone cerca di porre rimedio agli errori del passato e di riconquistare la fiducia della ex moglie e della figlia. Infine, i due veterani di guerra interpretati da Eastwood, a distanza di un decennio, rappresentano l’americano conservatore che si sente sconfitto a casa propria e trova difficile la convivenza con le numerose etnie presenti nel Paese. La differenza però sta nella maggiore leggerezza con cui Stone ne Il Corriere affronta la vita: Stone ha il desiderio di divertirsi, un desiderio che certamente Kowalski non conosce.

Se lo si paragona a Gran Torino, Il Corriere – attualmente nelle sale cinematografiche – non ne raggiunge le vette sebbene, come tutte le opere dirette da Eastwood, merita di essere visto. In primis per la prova di recitazione dell’attore sempre molto asciutta ed efficace. Indimenticabile Clint Eastwood che guida cantando i brani di Dean Martin che passano alla radio. Buona anche la performance di sua figlia Alison Eastwood, la quale veste i panni proprio della figlia di Earl Stone. Come già accennato, Bradley Cooper – diretto per la seconda volta dal regista – offre pure qui un’ottima interpretazione. Le due occasioni in cui il poliziotto e il corriere si incontrano emozionano il pubblico, soprattutto quella in cui i due chiacchierano del loro passato ed ammettono di aver commesso entrambi degli errori con le proprie famiglie.
La regia di Eastwood è rassicurante: guardare un suo film è come tornare a casa dopo una lunga e pesante giornata di lavoro. Con il suo stile essenziale e misurato sviluppa, sotto forma di road movie, temi che gli sono cari da sempre: l’utilizzo del tempo a nostra disposizione, il senso del dovere, il rimpianto.
Musica, fotografia (paesaggi americani infiniti) e recitazione degli interpreti concorrono a farne davvero un buon prodotto finale. Da citare tra i personaggi minori un Andy Garcia che ritrae Laton, boss del narcotraffico. Come in altri film del regista (si veda Million Dollar Baby o Gran Torino), non ci viene risparmiato il finale commovente e al tempo stesso formativo: comprendiamo che fortunatamente la vita ci offre sempre una seconda opportunità.

Foto di Claire Folger.