Nella giostra spettacolare e macabra di “Riccardo III”: indimenticabile Pierobon di Katia Ippaso

Foto di Luigi De Palma

«I personaggi ammirevoli in cui il sistema si personifica sono ben noti per non essere ciò che sono: sono divenuti grandi uomini scendendo al di sotto della realtà della minima vita individuale, e tutti lo sanno» scriveva Guy Debord. È un paradosso intuitivo, una delle immagini-guida de La società dello spettacolo, libro ruvido e indigesto scritto nel 1967 dal filosofo francese. Come tante produzioni dell’ingegno, è stato macinato tra i denti meccanici e seducenti della grande macchina del consenso, descritta analiticamente da Luciano Bianciardi, altro profeta del Novecento, in quella che verrà chiamata la Trilogia della rabbia (La vita agra, Il lavoro culturale, L’integrazione). Difficilmente troviamo, oggi, una tale carica esplosiva, un ragionamento parimenti intrattabile. E se queste potenti intuizioni sono finite nel dimenticatoio oppure nelle esangui maglie del lavoro culturale fatto al desk, dentro gli uffici delle grandi catene pubblicitarie (il vero volto dell’industria culturale), non smettono però di riapparire ogni tanto, come fossili dalle acque profonde, nel momento in cui un’opera, un’immagine, un gesto disobbediente, riescono a riesumarne la forza tellurica. È accaduto a teatro, assistendo alla prima romana del Riccardo III, produzione Stabile di Torino, regia di Kriszta Székely, Paolo Pierobon protagonista.
Fin dalla prima scena, lo spettatore comprende che qui non si sta parlando esattamente della Guerra delle Due Rose, dei Lancaster e degli York (il contesto storico dell’opera) né genericamente di politica e potere. Il modo con cui gli attori, immersi in un ambiente avvolgente, iperrealistico, mettono in scena una qualsiasi riunione di un qualsiasi consiglio d’amministrazione di una grande impresa che muove fatturati da capogiro, ci fa entrare direttamente, senza manifesti programmatici, in una delle stanze in cui il sangue è solito sgorgare direttamente dai guanti bianchi.

Foto di Luigi De Palma

Più si procede nel racconto, più la manipolazione di Riccardo diventa materia tangibile, ineluttabile. «È accaduto ieri o secoli fa?» si chiede Emily Dickinson in una sua folgorante poesia. È la stessa domanda che si fa lo spettatore partecipando a questo massacro annunciato. «È accaduto ieri o secoli fa?». Riccardo prende il potere assoluto uccidendo i fratelli e attribuendone le colpe agli altri, seducendone le vedove e arrivando all’abominio dell’infanticidio senza che nessuno opponga resistenza. Come è stato possibile? Fu ieri o secoli fa? Quante donne e quanti uomini hanno ignorato la minaccia nazista, flirtando con il seduttore che avrebbe ucciso i loro figli e depredato le loro case? Chi ha veramente compreso, come era accaduto invece ad Hannah Arendt esule in America, la portata del pericolo, quando tanti suoi amici e conoscenti stavano a guardare, inerti e speranzosi?
In un folgorante libro di Antonella Ottai, Ridere rende liberi (Quodlibet, 2016), ancor prima di affrontare gli esempi estremi di Westerbork e Theresienstadt, i campi di transito e insediamento dove, con una regolarità da stagione teatrale metropolitana, si esibivano i grandi attori ebrei del cabaret, l’autrice studia il comportamento parossistico della Lega per la Cultura degli ebrei tedeschi e del teatro di Schouwburg ad Amsterdam, dove gli attori declamavano «come se fossero tempi normali, come se il mattino dopo non avessero dovuto affrontare nessuna preoccupazione».
Materia scabrosa, indigesta, che evidentemente nulla ci ha insegnato. Se oggi, e non ieri, scoppia una guerra delirante e feroce nel cuore dell’Europa. Se oggi, e non ieri, inviamo armi in nome della pace. Se oggi, e non ieri, i dittatori della politica e della finanza siedono indisturbati sui loro troni, circondati da fedelissimi.
I fedelissimi, appunto. Non sono dei mostri. Come ci mostra questo magnifico lavoro teatrale che, non casualmente, è firmato da una regista ungherese, forse più sensibile di noi a quello che sta accadendo oggi in Europa, tra guerre, nazionalismi trionfanti e manipolazioni plateali. Personaggi come Catesby (Nicola Lorusso), l’unico a rimanere con Riccardo fino alla fine, è solo uno dei tanti uomini impauriti desiderosi di far parte di quel “cerchio magico” che si forma attorno a capi d’azienda, amministratori delegati, donne e uomini di successo che, a furia di guardare la propria immagine riflessa allo specchio, finiranno con il dare la morte anche a se stessi. Ma ancor prima di Catesby, anche Buckingham (Jacopo Venturiero) ed Hastings (Matteo Alì) cadono nella trappola, con livelli diversi di percezione. Centrale il personaggio di Stanley (Nicola Pannelli) «l’osservatore-sopravvissuto: sa tutto, vede tutto, ma racconta poco: sa cosa è morale è giusto, ma non impedisce agli altri di fare diversamente», come lo descrive lo stesso drammaturgo Ármin Szabó-Székely. In nome della logica della sopravvivenza (ben diversa dalla dinamica non cieca della vita: ricordiamo Bettelheim?), si commettono i peggiori crimini, o anche semplicemente si consentono i delitti più efferati, convinti di non poter fare niente. Narcisismo, ambizione, arroganza, pulsione di morte e principio di piacere, complessi di inferiorità e frustrazione si prendono tutti insieme la scena, in quest’opera tattile e sensatissima, costruita su misura non solo del protagonista, ma anche degli altri bravissimi attori che rendono vibrante e tesa la partitura scenica.

Foto di Luigi De Palma

Kriszta Székely ha ragionato a lungo sulle donne di Riccardo III. A cominciare da Anna (Lisa Lendaro) che, dopo aver ceduto alla seduzione del maligno di fronte al cadavere del marito che Riccardo le aveva appena ucciso (è mai stata scritta scena più drammatica?), diventa preda di uno stato quasi sonnambolico che racconta perfettamente l’effetto esercitato dalla giostra spettacolare e macabra sulla quale anche lei, alla fine, è salita. Cecilia, la madre di Riccardo (Manuela Kustermann), ha comportamenti alieni, come se la testa non potesse accettare fino in fondo l’infezione provocata dal frutto del suo stesso grembo, verso il quale getta alla fine una tonante maledizione. Margherita (Marta Pizzigallo) aleggia in palcoscenico come il fantasma di Cassandra, avvertendoci del male che sta per scatenarsi sul mondo. Elisabetta, infine (Elisabetta Mazzullo), passa dalla gloria alla caduta alla gloria: nel suo proclama finale, riscritto da Szabó-Székely, non si annida la vittoria, ma la minaccia. A Francesco Bolo Rossini il compito di mutare pelle: dalla vittima (Edoardo) al complice (il presidente della corte suprema). Un’analoga metamorfosi quella di Stefano Guerrieri (prima Clarence, poi arcivescovo). Alberto Boubakar Malanchino si moltiplica per tre: Rivers, secondo sicario e Tyrrell.

Foto di Luigi De Palma

Paolo Pierobon, infine. Difficile aggettivare la sua performance. Rischieremmo di essere troppo aulici. Al cinema, abbiamo visto Ian McKellen e Al Pacino interpretare il ruolo di Riccardo III. Anche la via comparativa sarebbe dunque superflua. Allora, proviamo a metterla così: per la sua camminata sbilenca, per quel suo sorriso levantino, per il modo con cui ha ucciso, in diretta, con calunnie e fake news, l’anima e il corpo dei suoi rivali, per il deserto della sua anima ferita, per il teatro della sua feroce solitudine, per la violenza e per l’insonnia, per la vicinanza che ha saputo creare tra la vita e la morte, per l’icastica adesione a quel «personaggio-vedette» (l’espressione è di Guy Debord) capace di tutto, il falso leader «sceso al di sotto della realtà della minima vita individuale», ecco, per tutto questo, il Riccardo III di Pierobon non scomparirà facilmente dalla nostra memoria.

Foto di Luigi De Palma

Riccardo III

da William Shakespeare
adattamento Ármin Szabó-Székely
traduzione Tamara Török
regia Kriszta Székely
con Paolo Pierobon, Matteo Alì, Stefano Guerrieri, Manuela Kustermann, Lisa Lendaro, Nicola Lorusso, Alberto Boubakar Malanchino, Elisabetta Mazzullo, Nicola Pannelli, Marta Pizzigallo, Francesco Bolo Rossini, Jacopo Venturiero e con, in video, Alessandro Bonardo, Tommaso Labis
scene Botond Devich
costumi Dóra Pattantyus
luci Pasquale Mari
suono Claudio Tortorici
video Vince Varga
assistente luci Gianni Bertoli
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Teatro Stabile di Bolzano / Emilia-Romagna Teatro ERT – Teatro Nazionale.

Teatro Quirino, Roma, fino al 21 maggio 2023.