“Amate sponde”: partitura compiuta per sole immagini e musica di Anna Maria Sorbo

Il cinema non è nuovo a puntare lo sguardo sull’inquietudine di società in trasformazione, o a interrogarsi sul destino ambientale del pianeta. Amate sponde, scritto e diretto da Egidio Eronico, come suggerisce il titolo (che riprende un verso di una poesia di Vincenzo Monti, di quelle studiate un tempo sui banchi di scuola: Bella Italia, amate sponde/ pur vi torno a riveder!) conduce l’osservazione nei confini del nostro Paese e la elabora in una forma visivo-sonora totale, esaltando le due componenti primigenie del linguaggio filmico. Il risultato è un coinvolgente racconto cinematografico in immagini e musica dell’Italia di oggi vista attraverso il suo paesaggio (non a caso la data scelta per l’uscita nelle sale del film è il 14 marzo, Giornata Nazionale del Paesaggio).
Paesaggio, va da sé, non si riferisce solamente alle caratteristiche per cui da sempre l’Italia è sinonimo di Bel Paese (una tale riduzione svaluterebbe immeritatamente l’opera di Eronico, ascrivendola al novero di prodotti documentaristici come ce ne sono tanti). Il concetto interseca geografia, urbanistica e architettura, economia, sociologia, storia: agisce su più livelli di conoscenza, dall’aspetto morfologico a quello più propriamente culturale, dell’ethos.
Vale insomma come territorio con i suoi elementi naturali e antropici, vale come spirito dei luoghi e anche come paesaggio dell’anima. Eronico si approccia efficacemente al suo oggetto/soggetto di indagine, l’Italia, quale «organismo vivente», connesso e interrelato come «paese-mondo: quantomeno» – giusto il correttivo dell’autore e regista – «dal punto di vista occidentale». Così che del nostro Paese ne viene fuori un ritratto polifonico, sfaccettato, percorso da forti spinte in avanti ma anche pieno di contraddizioni, dove trovano posto presente (un presente-futuro) e passato, tradizioni millenarie e nuovi riti collettivi, modi di produzione basati su antiche usanze o all’opposto ipertecnologicamente avanzati.

Dove edifici avveniristici stanno accanto a residenziali ecomostri, spettacolari vedute di spazi (ancora) incontaminati si alternano a baracche e discariche a cielo aperto, luoghi carichi di relazioni, memoria e identità ai non-luoghi della surmodernità di Marc Augé. Dove, in una parola, convivono miserie e splendore, bellezza e degrado. Il montaggio di volta in volta sottolinea o solo suggerisce accostamenti e contrasti, taluno evidente talaltro solo esteriore (come nelle sequenze relative ai diversi culti, dove i distinguo sulle differenze sono validi solo se ci si arresta alla superficie di ciò che appare).

Tutto questo si condensa nello spettatore a livello emozionale, a patto di lasciarsi andare a un’esperienza filmica immersiva inconsueta (tecnicamente si tratta di un non-verbal movie: niente dialoghi, sottotitoli, nessuna voce narrante, né trama, personaggi, ecc.). «L’importante» – scrive Eronico nelle note di regia – «non è tanto il cercare di “capire”, quanto il provare a “sentire” ciò che siamo, dove ci troviamo e quel che non vogliamo perdere». Qui e ora, senza infingimenti e fuori di ogni ideologismo. Questo il monito che ci è sembrato di avvertire a fondamento dell’ispirazione di Amate sponde, irriducibile, crediamo, tanto nell’auspicare un anacronistico ritorno alla natura quanto nel sentenziare sull’incapacità dell’uomo di convivere pacificamente e non in modo predatorio col suo ambiente. Può la sostenibilità autentica passare per una terza via? Se c’è, verrebbe da dire, troviamola. Prima che sia troppo tardi.