LIBERTEATRI > Quale memoria? Quattro drammaturghi per Futuro Passato di Carlo Lei

C’è tempo fino al 3 marzo per rispondere al bando 2023 di Futuro Passato (https://www.tinaos.com/futuro-passato-2023-il-progetto/), il progetto di accompagnamento alla scrittura scenica dell’associazione culturale friuliana Tinaos, ente capofila, che lo ha realizzato in collaborazione con il CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia. La tematica quest’anno è “Memoria digitale”: uno dei testi sarà premiato da una giuria come vincitore del premio per una prima realizzazione (in forma di studio); gli altri saranno presentati come lettura scenica.
Proprio in queste settimane ci è capitata fra le mani la raccolta, ancora in attesa di una distribuzione editoriale, dei finalisti 2022 (l’anno scorso erano 4 e non c’era il vincolo anagrafico), in cui figurano i nomi di Alessandra Di Lernia, Caroline Baglioni, Jacopo Giacomoni e Alice Torriani. I testi presenti nel libro sono tutti di innegabile qualità ed eccezionalmente varie sono le declinazioni del tema del bando che la giuria ha selezionato.
Vincitore assoluto è risultato Al buio il resto di Alessandra Di Lernia di cui riconosciamo la tipica seducente densità di scrittura. Una scrittura a scene staccate, non comunicanti se non per echi e rimbombi e costruite a sprazzi al loro interno, densa di letture altre e varie, come testimoniano le note, di precipitati culturali rimessi in circolo e portati alla coscienza, di storie, simboli e figure dell’Occidente, dell’Oriente e degli altri mondi resi materiali linguistici tangibili. Nella «fantasmagoria» di Di Lernia tutto ciò è reso in lacerti conclusi e autoportanti di diversa impostazione comunicativa, nel numero di diciannove scene. Esse possono essere in forma di sketch, come la didascalica comica di Cavour, De Gasperi e una maestra elementare impegnati a operare chirurgicamente un alunno innestandogli nel cranio l’amor patrio, al suono dell’ouverture del Nabucco e scossi dalla memoria del manzoniano Marzo 1821, che il povero paziente ripete meccanico, una volta terminata la pratica. O quello di una Condoleezza Rice che, a chiudere un fulmineo trittico dal titolo Americhe, canta Ain’t got no, I got life di Nina Simone. E ci si può imbattere in evocazioni stregonesche di un milieu attraverso la dote icastica, “condensatoria” e insieme evocativa di un lungo monologo, come quello costruito a partire dall’Ouverture 1812 di Čajkovskij. Ma il lavoro sul mito (di fondazione, culturale, mito-falsificazione), sa mostrarsi anche come tragedia. Come quando la ninfa Europa si accorge che il suo famoso ratto a opera di un candido toro non è un poeticamente «procace» come quello del quadro di Guido Veronese ma, come il vecchio Tiziano intuisce nel suo, un vero stupro. L’abilità dell’autrice romana, che ha percorso nel passato un tratto di strada accanto a una coppia come Frosini/Timpano, che della decostruzione applicata alla storia della cultura ha fatto il proprio tavolo operatorio privilegiato, è portata ad altissimi giri in questo lavoro di intarsio che annoda le memorie vere o falsificate all’orrore del presente. Con una sua apoteosi nel finale, preparato dai pezzi su Primo Levi, il colonialismo, la riscrittura/cancellazione della memoria storica fissata su monumenti e inni nazionali, che sprofonda nell’orrido corto circuito tra testimonianza e turismo: nell’ultima scena, testimonianze di sopravvissuti ad Auschwitz si mescolano a invitanti presentazioni di tour operator per la stessa meta – mentre poche pagine più indietro, spuntava in un «esergo fuori luogo», vero viatico all’intera raccolta di rifiniti bozzetti, la sentenza di Paul Valéry, tratta dai suoi Sguardi sul mondo attuale secondo cui «la storia giustifica qualsiasi cosa. Non insegna assolutamente nulla, perché contiene tutto, e di tutto fornisce esempi».
Notevoli anche i testi di Alice Torriani e Caroline Baglioni. Trapianti estranei di Torriani, dalla forma tradizionale del dialogo a due – salvo l’ingresso di un uomo, in vesti diverse e con il nome stampato in un grigio più tenue sulla pagina –, gioca il titolo del bando 2022 attraverso l’emersione di un ricordo, anzi di un sogno/ricordo, un’agnizione reciproca di madre e figlia diversamente colpevoli l’una verso l’altra, accompagnata dall’incubo di un rimosso, in una scrittura che non disdegna il verso ma che non vi languisce, tendendo con un ritmo crescente ad apici quasi soffocanti, e a un finale straziante.
Un’immersione per certi versi paragonabile (anche se il riconoscimento dello scelus non avviene internamente al personaggio, ma è sapientemente svelato al lettore) è Sonetto 101 di Baglioni, che unisce la mnemotecnica “dei loci”, cioè la pratica di assegnare ciascun elemento che si vuole ricordare a una localizzazione spaziale in un luogo conosciuto, alla ipertimesia, cioè la situazione patologia descritta come «sindrome della memoria autobiografica», l’insorgenza incontrollabile dei ricordi della propria vita, minuziosamente collazionati dal cervello, giorno per giorno. In un impaginato tipograficamente affascinante, le parole del sonetto XVII dei Cien sonetos de amor nerudiani emergono in un corpo maggiore e in grassetto nella pagina, collegati come in una mappa da un filo sottilissimo d’inchiostro che scavalca le battute del testo. Attorno a queste parole e per giungere ad esse Baglioni lavora minuziosamente una storia che ha della numerologia medievale per la precisione inflessibile del catalogo (interiore), e insieme della iperletteratura borghesiana, un gioco di specchi a sprofondare. La mente della protagonista percorre, attraverso la mappa di via P.N. il ricordo di un trauma infantile e conserva negli anni le coordinate di un appuntamento salvifico, riservato al finale.
Sempre nel personale parrebbe localizzarsi il testo di Giacomoni, È solo un lungo tramonto, anche se l’obiettivo della ricerca è tutt’altro che autobiografico. Eppure, dalla vita vera si parte: il padre dell’autore, malato di demenza, prova a ricostruire la sua, sotto lo stimolo del figlio, in soli otto minuti. Le sue parole (i racconti sarebbero quattro, ma per questioni di spazio ne viene pubblicato solo uno), già segnate dall’incapacità della selezione, da uno sguardo miope tutto intento a catene di dettagli, vengono da Giacomoni registrate, trascritte e dettate a un programma di scrittura del computer, il cui prodotto è nuovamente dettato – e così per quaranta instancabili volte. Il degrado progressivo del supporto, alla maniera, dice l’autore, «dei compositori di hauntology musicale», reifica la perdita di sostanza, di timbro della mente ammalata, ripetizione dopo ripetizione, in uno sbiancato trapassare verso il silenzio. Il lungo e già in partenza «slogato» racconto dell’uomo (la metafora è di Giacomoni), diviene, riscrittura dopo riscrittura, un rimasuglio verbale nel quale non invano ma forse ingenuamente, consolatoriamente si cercherebbero illuminanti getti spontanei di senso. Così, come nel citato Everywhere at the end of time dei Caretaker la musica lentamente lascia spazio al rombo vuoto del silenzio, entro il quale si percepisce un accumulo ormai insignificante di tutti i significati di una vita, «quasi conflati insieme» direbbe Dante.
Immaginato come una durational performance (la durata totale potrebbe arrivare alle sei ore), il lavoro di Giacomoni è irrappresentabile come ogni tentativo radicale che tenti di forzare, alla maniera delle avanguardie, i parametri percettivi del teatro; e forse la lettura della sua struttura fatta senso (un senso che scivola a perdere sé stesso) può sostituirne la messinscena. Ma esattamente per questi due motivi, per cogliere lo scarto anche minimo che la percezione produce dall’attesa, ci si aspetta con ansia di vederlo, al più presto, montato in performance.

Futuro passato – ricordare la memoria, 2022, pp. 221.

Per ottenere il testo, scrivere a info@tinaos.com