Un Angelo troppo grasso per morire di Alessandra Bernocco

Foto di Paride Scuffi

Così grasso da spezzare con il suo peso la corda del boia. Questo il motivo per cui un giovane condannato a morte viene risparmiato, almeno provvisoriamente. Questo: non altro. Il fatto che sia obeso, oltremodo fuori misura. Non è letteratura ma cronaca. Cronaca di un po’ di anni fa. Siamo in un Paese non precisato, forse negli Usa, e la notizia aveva fatto il giro dei rotocalchi. Non so se fosse arrivata fino a noi. Certamente non è una notizia improbabile. Dove la condanna capitale è legge, le notizie anormali sono normalizzate e non destano nemmeno scalpore. Non la sedia elettrica, non la forca, non il fatto che alla forca sia destinato un ragazzo. Ma il fatto che il ragazzo sia talmente obeso da venir risparmiato, per risparmiare la corda, questo sì, deve aver fatto notizia.
E da questa notizia, per ragioni ben altre da quelle per le quali un rotocalco potrebbe essere letto e venduto, è partito Massimo Sgorbani, autore di Angelo della gravità – un’eresia, monologo diretto da Alvia Reale e interpretato da Fabio Mascagni, giovane attore dal phisique du rôle, che nulla ha da spartire con il corpo sfatto del condannato.
E allora? E allora si va di paradosso. Si costruisce un’idea capace di debordare come carne viva che fuoriesce dai confini del corpo e lo racconta. Pertanto, a una regia dedita e accuratissima nel contenere quel che deborda, nel fissare in immagini il flusso verbale, lavorando sui climax, tanti, che si succedono veloci, risponde un’interpretazione matura, solida, in equilibrio tra narrazione e lirismo, anche molto dolente, che allo spettatore arriva in tutto il suo strazio.
La domanda di partenza su cui si sofferma l’autore riguarda il tempo dilatato dell’attesa: cosa succede nella mente e nel corpo di un condannato prima dell’esecuzione e in quel pezzo di tempo tra il rinvio della pena e la soluzione. Perché una soluzione si ha da trovare: come impiccare un obeso senza far torto al boia.
Ecco, mentre la legge è in cerca di soluzione, la colpa aspetta e la giustizia tace. Fate con comodo. Noi, intanto, ci godiamo lo spettacolo.
Che comincia con un sipario luccicante da varietà, musica ritmica, direi allegra e un clima di magia e leggiadrìa che disdice la più plausibile cella di una galera e ci immette immediatamente in una dimensione in cui c’è spazio per l’immaginazione. Almeno questa è la prima impressione.
E in questo spazio, mai realisticamente precisato, prendono vita ricordi, sensazioni, emozioni e personaggi che hanno abitato la vita di questa creatura dannata, che ha passato quel pugno di anni che lo separano dalla fine sotto il peso del proprio corpo e di quello che il suo corpo genera e alimenta: derisione, compassione, cattiveria. Un corpo famelico e ipernutrito, ora forzato a dimagrire ora indotto a ingozzarsi, ora ancora a liberarsi del cibo attraverso il rito del vomito, vera e propria fenomenologia raccontata anche in chiave metaforica. Al punto che persino Dio avrebbe creato noi e il mondo dal suo vomito, come supremo atto d’amore.
E in primo piano, fin troppo ovvio, c’è proprio il nesso tra cibo e amore che ha fatto i suoi danni lasciandolo irrimediabilmente digiuno di entrambi, in balia di se stesso non meno che del boia, protetto solo da quella coltre di grasso che diventa corazza per difendersi dal mondo di fuori, dove i buoni consigli si dispensano insieme ai luoghi comuni.  La maestra che suggerisce una visita medica, il cattivo rapporto con le ragazze, il linguaggio violento di una violenza ovattata, dissimulata male, che scherza con parole come ciccione e grassone e guarda affogare nel volto i suoi occhi piccoli, come le mani, sproporzionate alla mole.
Eppure, nel racconto c’è leggerezza, c’è delicatezza e pudore nel porgere la sofferenza, nell’attraversarla fino alle lacrime che a un certo punto sembravano vere, e forse lo erano. Le stesse scene più crude, quelle che avvertono dell’antefatto che ha determinato la condanna, prima risucchiate da un urlo disperato, si stemperano in quell’intermezzo dove si dice che abitino gli angeli, «tra il mondo merdoso della gravità e Dio».

Foto di Paride Scuffi

Il mondo degli angeli, l’ostia più o meno consacrata, gli aeroplanini di carta realizzati con una pagina della Bibbia, sono i segni lievi che dialogano con il peso e la durezza della storia, in cui si affacciano interlocutori diversi, animati e non: l’America coi supermercati H 24, cioè la meta, la libertà agognata, il luogo in cui tutti sono grassi e i diversi sono uguali; gli aquiloni, così grandi eppure leggeri, evocati all’inizio come il paradigma del paradosso che contrasta con lui, che invece è piccolo e pesante; il padre fedifrago e la madre morta per il dispiacere, la nuova compagna del padre che lo vorrebbe far dimagrire; le ragazze che sono un miraggio e poi Sarah, l’unica donna che gli offre il suo corpo, altrettanto grasso e probabilmente infelice, che scappa per non sottostare alla gravità del corpo di un altro. Quello suo con Sarah pare una lotta tra la gravità di corpi che si attraggono e si respingono fino alle estreme conseguenze, per entrambi. Perché tutti, in un modo o nell’altro, siamo «schiavi della gravità».
Un bel lavoro, piccolo e prezioso, produzione appassionatamente low cost, se non proprio indipendente, che rincuora e fa bene vedere.

Angelo della gravità – un’eresia

testo Massimo Sgorbani
con Fabio Mascagni
regia Alvia Reale
musiche originali di Roberto Piazzolla.

Teatro Basilica, Roma, 4- 6 novembre 2022.

Prossima data:
Teatro Comunale di Antella, Firenze, dal 5 all’11 febbraio 2023.
Lo spettacolo sarà poi in tournée.