“L’attesa”. Una nuova dialettica servo – signore di Alessandra Bernocco

Foto di Fabio Lovino

«Un testo di donne scritto benissimo da un uomo». Ricordo che era più o meno questo l’attacco della recensione che Natalia Aspesi fece de L’attesa, in occasione della messa in scena di Cristina Pezzoli, con Elisabetta Pozzi e Maddalena Crippa, che di replica in replica si scambiavano i ruoli di Rosa e Cornelia.
Poi è stata la volta di Stefania Rocca e Chiara Muti nella versione cinematografica di Giorgio Treves. Non ho conoscenza di altri allestimenti fino a questo recente diretto da Michela Cescon con Paola Minaccioni e Anna Foglietta, in tournée fino all’8 maggio 2022.
L’attesa è uno di quei testi che ti fanno venire voglia di conoscere l’autore per fare due chiacchiere e dirgli grazie. Ed è un gran peccato che Remo Binosi ci abbia lasciato, cinquantacinquenne, vent’anni fa.
Grazie perché è un testo di parte: proprio nel senso che è scritto da chi sente di appartenere. Non che ci voglia coraggio a stare dalla parte di due disperate, neglette e punite oltre misura, ma una “compromissione” partecipe con l’animo femminile è invece indispensabile per raccontare così bene la loro resistenza, per cogliere il sentimento assoluto, ancestrale, racchiuso nel corpo di una donna oltre le differenze.
Una breve sinossi: nella Venezia di metà Settecento la nobildonna Cornelia, promessa sposa a un ricco blasonato scelto dalla famiglia, viene allontanata e rinchiusa per nascondere una gravidanza sgradita. Ad assistere la donna fino al parto viene chiamata una contadina analfabeta, Rosa, anch’essa incinta, che per nove mesi ne condivide la sorte. In verità c’è anche un colpo di scena, a mio avviso non sostanziale, e cioè che le due donne si scoprono incinte dello stesso uomo, nientemeno che Giacomo Casanova.
Divertente, come trovata, ma nulla che modifichi il rapporto tra le due. Che è un rapporto di corpi che si fanno anime e di anime che si riscoprono come identico corpo.
Quella di Rosa e Cornelia non è la sopravvivenza di due animali in cattività, nati sì in emisferi diversi eppure, rinchiusi nella medesima gabbia; non è nemmeno la relazione amichevole che si instaura per non scannarsi o per non soccombere, quando non c’è null’altro su cui appoggiarsi, se non la propria vittima o il proprio carceriere.  Il loro è un sentimento assoluto perché l’assoluto lo portano in grembo e perché l’assoluto è identico a sé, non prevede variabili, declinazioni, riserve. Su questa intuizione che si fa sentimento, cresce il loro rapporto e diventa amoroso, sincero, salvifico. Gravato sì ma dalla volontà di persistere, di continuare a vivere l’una attraverso il grembo dell’altra accogliendone il testimone.
Si sono spartite aria, cibo e ritagli di vita lasciati di fuori, si sono scambiate i vestiti, cioè denudate e poi rivestite l’una dei panni dell’altra, si sono anche raccontate menzogne per proteggere, rimuovere o dimostrare a se stesse di esser credibili, e a mano a mano veniva a galla quel profondissimo sentimento di assoluto che è appartenenza senza condizioni.
Nel corso della commedia, infatti, si assiste a una sorta di rispecchiamento che si fa quasi identità e che si compie a partire da differenze apparentemente incolmabili. A cominciare dall’essere lì, che per una è prigione, per l’altra sostentamento sicuro. 

Foto di Fabio Lovino

Non credo sia fuori luogo rintracciare nel rapporto tra le due una coniugazione possibile della dialettica servo-signore di matrice hegeliana, né credo che Binosi non ne fosse consapevole e Michela Cescon, di conseguenza.
L’identità o, meglio, l’identificazione, prende le mosse da un conflitto tra due figure opposte che da testa a testa iniziale si scioglie contaminandosi fino al sacrificio per una causa che le supera entrambe. Dei due neonati uno solo è destinato a salvarsi e viene scelto colui che “può cambiare il mondo”.
Questo, benché la dialettica umana sia ben più articolata e sofferta di quella di un’idea, mostrando crepe e riservando sorprese che qui non è dato svelare.
Lo spettacolo ha il merito di aver restituito al teatro un testo appositamente concepito, pieno di invenzioni e di immagini che sono più che suggerimenti. La regia vi ha aderito con rispetto sviluppando quegli spunti squisitamente teatrali che consistono nel gioco del doppio e del travestimento: di corpi, in prima battuta, vestiti dei costumi di Giovanna Buzzi, importanti ma anche facili da gestire. La relazione tra le due si evolve anche attraverso silenzi, sguardi, “a parte” di eco goldoniana però rivolti non tanto al pubblico ma al proprio pensiero che osserva, controscene forti che raccontano il desiderio, l’eccitazione e il castigo e che preludono al contatto dei corpi e al bacio saffico.  Scene che acquistano forza e dinamicità dai giochi di luce di Pasquale Mari, sempre appropriati.
Diverso è il rapporto tra singola interprete e rispettivo personaggio che mi è parso modulato in modo differente: a una Foglietta protetta dietro l’austera maschera di Cornelia, capricciosa, altezzosa, disperata, impetuosa, sorta di allegoria di un carattere, risponde una Minaccioni che riversa nella sua Rosa dall’accento veneto tutti i colori possibili, suscitando tenerezza, commozione e riso, e anche grazie ai jolly che il suo personaggio contiene,  strappa più volte l’applauso a scena aperta del pubblico romano in Sala Petrassi, all’Auditorium Parco della Musica.
Insomma, senza giri di parole, Rosa è più simpatica e parteggiare per lei è molto più facile. La sua saggezza popolana, ruspante e vera di una verità in evoluzione, di cui prende coscienza fino a dire “ti amo”, è chiaramente un asso nella manica.
Ma è nello scioglimento del conflitto, o meglio, dei tanti conflitti, che le due cedono il passo alla storia. La storia che le racconta e le unisce, preparando di volta in volta il terreno per nuovi conflitti a venire. Fino alla fine, quando la sofferenza si fonde con la gratitudine e la corrompe. E allora sarà l’anatema, ma dell’innocente. Colpevole solo di essere vivo.
Infine, mi fa piacere sottolineare che si avverte chiaro il lavoro di squadra e la complicità che già si ravvisava nella prova aperta al pubblico della scorsa estate, allo Spazio Rossellini. 

L’attesa

di Remo Binosi
regia Michela Cescon
con Anna Foglietta, Paola Minaccioni
scene Dario Gessati
costumi Giovanna Buzzi
disegno luci Pasquale Mari
suono Piergiorgio De Luca
assistente alla regia Elvira Berarducci.
Produzione Teatro di Dioniso, Teatro Stabile del Veneto
in collaborazione con Fondazione Musica per Roma, Teatro Stabile di Bolzano, ATCL Circuito Multidisciplinare del Lazio per Spazio Rossellini Polo Culturale Multidisciplinare della Regione Lazio.
Produzione esecutiva Teatro di Dioniso.
Il testo L’attesa è pubblicato da La Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi (marzo 2022).

Auditorium Parco della Musica, Roma, dal 15 al 20 marzo 2022.
In tournée.