Altre diagonali nella danza di Paolo Ruffini

Foto di Corpoceleste Pro

Nello svaporamento di senso di un teatro ormai arroccato su quel versante avvizzito ch’è il gusto medio di un pubblico beatamente immune al rischio, la danza continua a sbullonare certezze e a non consolare i romantici. Forse, in questo paradossale momento storico totalmente abbrutito e in balia dell’idiozia umana, ripetersi come un mantra che va tutto bene è nefasto. Nulla va bene. E ridacchiarci su, come per esorcizzarne la tragedia che rischia di deragliare in tutto il mondo è da mentecatti (diversi spettacoli hanno virato verso un alleggerimento di responsabilità borghese); fascismi di tutti i colori, guerre, povertà incipienti, migrazioni da diverse diagonali del mondo con popolazioni che scappano per sopravvivere: che altro aggiungere? Non occupiamocene. O facciamolo, per toglierci il dente, con quel garbo che non scomodi più di tanto o con quella retorica consolatoria orientata a restaurare “confini” tra un “noi” e tutto il resto in quella razzializzazione persino dei desideri degli “altri”. Che fa la danza allora per non risultare ottusamente consolatoria? Spariglia le carte, si diceva. Certo, di balletti e spettacoloni nell’area del moderno che replicano l’ennesima versione di sé ce ne sono e condizionano non poco tutti i livelli dei sistemi di produzione: maestri ed epigoni abituati a sforzi di lieve caratura per ri-confermare, ri-occupare lo stesso spazio sociale di sempre, sebbene oggi quello “spazio” abbia perso valore e consistenza; carini divertissement che negoziano l’arte con l’applauso e, non ultimo, un ritorno alla rassicurante “forma” di un corpo sempre più desideroso di parlare soltanto di sé, della propria nervatura estetica dimenticandosi le rivoluzionarie letture pronunciate proprio sul concetto di corpo dai vari Foucault, Merleau-Ponty, Deleuze o Jean-Luc Nancy, per esempio (è un caso che siano tutti francesi? D’altronde loro hanno la tragedia, noi la commedia). In questa pacificata abitudine il corpo scenico danza in consolatorie posture che tanto piacciono soprattutto a chi in quelle ritrova il proprio desiderio. La “bella danza” sembrerebbe voler tornare, perciò, a una certa “devianza” tipica del discorso pornografico, nel non dire ciò che si dovrebbe dire e dove le parole (si legga in questo caso il gesto, il comportamento), come direbbe Judith Butler, «sono parole che significano una cosa anche se intendono significarne un’altra, o sono parole che non sanno che cosa significano o sono parole viste come esibizione, confessione e prova, ma non come veicolo comunicativo, essendo state private della loro capacità di fare affermazioni veritiere» (1). Il vuoto di affermazioni segna un certo rigurgito alla normalizzazione. Ma per fortuna c’è anche una idea di danza che spariglia le carte, appunto, è che ha difficoltà a contenersi nel solo codice della danza propriamente detta. Alcuni lavori coreografici transitati recentemente a Roma attraversano, anche solo tangenzialmente, questa “messa in crisi” dei precetti propri alla danza, stordendone la natura seppure riconoscano al linguaggio un suo specifico intarsio, di alterazione percettiva e abbandono semantico alla rievocazione de-potenziata. Cosa ci dicono e come si posizionano rispetto ai presupposti delle tradizioni queste densità compositive, di co-esistenze tra performance e movimento, tra autorialità e spazio incorporato? Al festival Equilibrio dell’Auditorium – Parco della Musica Dialogo terzo: In A Landscape vede la collaborazione fra Alessandro Sciarroni e la compagnia CollettivO CineticO guidata da Francesca Pennini, quasi un tracciato alla maniera dei precedenti Untitled_I will be there when you die e FOLK-s will you still love me tomorrow? dell’artista marchigiano, ma che qui si costruisce come un rutilante esercizio dei performer con l’hula hoop calato in un quadro distopico di un “gioco” di equilibri precari in cui i passaggi sono minimali, piccoli spostamenti all’interno di una struttura avviluppante e ancora una volta resistente. Pochissimi i fraseggi singoli e gli spostamenti nell’uniformità coreografica, qualche “interpretazione” sposta l’economia di tenitura di un movimento sempre uguale e allo stesso tempo percettivamente scardinante, diverso in ogni interprete, in una prospettiva ormai sperimentata da Sciarroni nell’indagare lo sguardo dello spettatore (la sua sensibilità) innescandogli dubbi su ciò che sta vedendo.
Nel progetto curato da Michele Di Stefano Grandi Pianure, al Teatro India Annamaria Ajmone porta lo spettacolo La notte è il mio giorno preferito, un solo a suo modo anomalo per la performer perché questa volta alle prese con un riferimento testuale e per alcuni versi filosofico ch’è la figura di Baptiste Morizot, in quella filiazione da Henry David Thoreau aggiornata agli squilibri dell’ultramodernità, facendone (del testo), di cui viene dichiarata la “aderenza” e la motivazione creativa. Lo spazio “ricreato” disegna una foresta visivamente tecnologizzata seppure mantenga una sua dimensione misterica, quasi antropomorfa, una installazione che fa intravedere tronchi e fogliame inabissati nell’oscurità lasciando sprazzi di luce perforare le traiettorie di cui la Ajmone si appropria con un movimento lisergico, una trasfigurazione immaginaria in un immaginario abisso abitato da giganti creature incorporee, metafisiche, altro da noi. Tutto il lavoro si nutre della ricerca “preparatoria sul campo” negli spazi della natura e ne restituisce la necessità di riportare a un grado zero la scrittura, la sua “animalità”, un anelito forse al “vero” oltre il confine della rappresentazione.

Foto di Andrea Macchia

Anche Maqam della compagnia MK (una collaborazione con Lorenzo Bianchi Hoesh e Amir ElSaffar) sposta la propria asticella creativa in avanti guardandosi alle spalle, alle proprie memorie sedimentate nelle risacche del gesto e di un vagabondare concettuale (oltreché fisico). Sempre al Teatro India, questo lavoro complesso per architettura e deragliamenti di un “corpo anteriore” che ne definisce lo statuto e l’effetto, si avventura nella parabola di un «avvenire immediato» che registra la composizione e la scomposizione in progress di un’opera de-coreografica molto pregna della tensione che si viene a creare in scena sera per sera. È azione e concerto, radice e traccia sulla sabbia che si presta alla cancellazione, sono eco e colori. E il vagabondare porta a un Maghreb tangibile, a un soffio vitale ch’è del vento, di notti dolenti e orizzonti riverberati dal sole, a un claim fortemente emotivo che nella scrittura corporea di Di Stefano sorprende. Musicisti esecutori in Live-set ridisegnano il carattere di una compagnia sicuramente nomade, ma sempre all’interno di un emisfero occidentale che in Maqam, invece, appare assorbita come per osmosi dagli elementi (suoni, fraseggi percussivi e pause) di un’altra geografia rigenerandosi quale tessuto (un macramè) di possibilità culturali ulteriori. Il maqam ci ricorda il regista-coreografo afferisce ai posizionamenti melodici, all’improvvisazione, alle “trasformazioni silenziose” (direbbe François Jullien) di una raffigurazione sonora e visiva distonica, non lineare, per questo come in quadro di Georges Seurat abbiamo un ritorno dell’insieme ma ne cogliamo i particolari scomponendoli in quadri, porzioni autonome tenue assieme da un impercettibile filo di senso. E dunque, cosa ci stanno raccontando questi tre lavori al di là della loro “fattura”, della loro scelta linguistica? Ovviamente ogni proiezione è lecita, non ve n’è una esclusiva (e dichiarata), sicuramente però siamo in un altro habitat rispetto ai paesaggi museali descritti da Alessandro Pontremoli nel suo definitivo La danza 2.0, che molto ha scosso l’uditorio museale (appunto) della danza italiana.

Foto di Andrea Macchia

Interessa in questi lavori la capacità di spostare il concetto di conservazione nel territorio proprio della continuità tra esperienza e contesto, tra storia e presente, tra archivio e riciclo; la de-naturalizzazione dello spettacolo nell’alveo della performance che si serve, come in questi casi, di armenti e materiali di uno spazio esperito e metaforico; l’abbandono del corpo trans-lucido optando per un corpo possibile, finanche debole, fallace, ridicolo; la ricerca di un non-movimento dove «le espressioni si concretizzano come opere grazie al loro essere collocate nella storia, dove gusto, circostanze, condizioni socio-culturali determinano le caratteristiche di percezione e registrazione del loro carattere necessariamente fisico. Ciò che infatti è considerato danza in una parte del pianeta, può non esserlo entro altre coordinate geografiche» (2).

Note
1) Judith Butler, Parole che provocano. Per una politica del performativo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, p. 121.
2) Alessandro Pontremoli, La danza 2.0. Paesaggi coreografici del nuovo millennio, Editori Laterza, Bari-Roma 2018, p. 92.