Un salto nel passato non riuscito di Carlo Alberto Biazzi

Dario Argento è un Maestro. E lo sarà sempre. Ma Occhiali neri è davvero un brutto film.
Roma. L’eclissi oscura il Sole in una torrida giornata d’estate. È il presagio del buio che avvolge Diana quando un serial killer la sceglie come preda. La giovane escort, per sfuggire al suo aggressore, va a schiantarsi contro una macchina, perdendo la vista. Dallo shock Diana riemerge decisa a combattere per la sua sopravvivenza, ma non è più sola. A difenderla e a vedere per lei adesso ci sono Nerea, il suo cane lupo tedesco e il piccolo Chin, sopravvissuto all’incidente. Il bambino cinese con i suoi grandi occhi, la voce dolce dall’accento straniero, il carattere di un ometto indipendente e indifeso allo stesso tempo, la accompagnerà nella fuga. Ossessionati dal sangue che li circonda, saranno uniti dalla paura e dalla disperata ricerca di una via di scampo, perché l’assassino non vuole rinunciare alle sue prede. Chi si salverà?
Presentato alla Berlinale, Occhiali neri si apre in una Roma solitaria, quasi desertica – sappiamo che si tratta di Roma perché lo leggiamo nella sinossi – in un’estate calda, di quelle in cui tutto sembra immobile. Una Roma che riconoscono solo gli abitanti della Capitale, una location raccontata male e impersonale, lontana dalle atmosfere tipiche di Argento, come per esempio in Tenebre.
L’inizio dell’opera è segnato proprio dal sole che viene coperto, una metafora che ha voluto raccontare Dario Argento, che ritorna dieci anni dopo il suo ultimo (dimenticabile) lavoro cinematografico e fa osservare quell’eclissi dritta negli occhi alla sua protagonista Ilenia Pastorelli, presagio della futura cecità.

Ne parlo con rammarico e anche con un po’ di rabbia, perché amo Argento, non tanto come appassionato di thriller/horror, ma come vero cultore di una cinematografia ricercata. Di capolavori ne ha fatti, basta pensare a Profondo rosso e Suspiria, vere perle di sceneggiatura e arte visiva.
Qui, sembra di essere in un altro mondo. Occhiali neri è la rappresentazione di un’arte filmica che Argento conosceva bene, ma che però era possibile realizzare solo negli anni Settanta, dove oltre ai mezzi esisteva l’atmosfera e in cui al racconto bastavano pochi elementi per poter veder costruito attorno ad essi un castello di suspense. In breve, questo film è la brutta copia di quello che sapeva fare.
I primi venti minuti riescono a incuriosire lo spettatore, trasportandolo in un contesto quasi onirico. Ma la sceneggiatura di Argento e Franco Ferrini è debolissima, sia narrativamente che stilisticamente, insieme a tutti gli elementi opachi e rarefatti, a tratti anche comici, disturbati, oltretutto, da una recitazione forzata e per niente credibile.
Da un intrigo “giallognolo” di cui si capisce e si vede tutto troppo in fretta ad una linearità quasi disarmante delle vicende che porta a un finale prevedibile, scontato, non in linea con i colpi di scena che erano specialità di casa Argento.
Nemmeno la colonna sonora di Arnaud Rebotini mi ha convinto. Nonostante sia piaciuta ad altri, io l’ho trovata molto simile alle basi midi dei Karaoke.
Di questo film non si salva nulla, nemmeno i rimandi ai temi cari al regista, come la cecità e gli animali, che mi piace ricordare nei suoi capolavori.
Nonostante questo ennesimo scivolone, per me, Argento rimarrà sempre un grande maestro, un uomo che è stato in grado di raccontare storie meravigliose e piene di colpi di scena. Di lui conservo un autografo che mi fece vent’anni fa: «a Carlo Alberto, con affetto…».
E con affetto penso a lui.