Panorama di Motus. Un repertorio di umanità di Paolo Ruffini

Foto Theo Cote

Processualità esposta, prassi artistica prosciugata, quasi neutralizzata dalla “vita” che entra a gamba tesa nella sfera della creazione d’arte, archivio di memorie (personali e collettive), autobiografie e sguardo politico sull’attuale, pressante e inebetito tempo dell’adesso, Panorama ultimo lavoro scenico di Motus è un grandangolo sullo skyline della contemporaneità, o quell’ambito distonico del presente che intendiamo come tale, impietosa e poetica. In estensione da i precedenti The Plot Is The Revolution e MDLSX, anche Panorama ha la chiarezza di un ascolto intimo, di un rumore di fondo che cresce come un’orchestrazione di umanità e materiali poveri (sebbene la tecnologia sia presente in quella chiave drammaturgica di inevitabilità, come solo il gruppo riminese sa fare), di un incedere per sbalzi temporali e narrazioni sfalsate, riuscendo a coniugare un carattere apparentemente distante di una certa presenza scenica “non teatrale”, che è etimologia e presenza dei performer, con il loro portato personale, la loro prossimità con lo spettatore. E dopo la decostruzione di un racconto-incontro extra-ordinario tra Judith Malina e Silvia Calderoni, in quella programmatica contiguità con la figura di Antigone che ha caratterizzato i lavori di Motus sino a The Plot, e dopo l’incedere per stratificazioni di significati (al di là delle teorie di genere) che ha rappresentato il potente MDLSX, nell’esposizione rovesciata che il teatro sublime fa con se stesso e la Calderoni mette in atto nell’essere in presenza, appunto, ecco un capitolo ancor più post-organico (germinazione testimoniale derivativa da Artaud), anzi definitivamente post-teatrale ove far convergere documento e èpos in una moltitudine di frame narranti sempre sul limite dello spaesamento percettivo e di senso.

Foto Joung Sun

Il lavoro muove da una video-intervista registrata che si amplifica come eco e risonanze quando in diretta si compie un identico intervento con i sei performer. Sono intervistati pronti a una narrazione di sé estrema. Come per una prova con se stessi. Domande, parti registrate e parti in diretta riproposte anche in video sullo schermo di fondo, come in un rito iniziatico si differenziano le forme (perché le soggettività sono differenti), nonostante la struttura riesca a mantenere in un corpus unico l’insieme. Ogni performer entra più o meno al centro della scena, si accomoda su uno sgabello inquadrato da una videocamera posizionata su un treppiede, ed ecco che assistiamo a un crash percettivo tra la registrazione fatta in un tempo precedente (e precedente è la condizione dalla quale si arriva per andare verso un altrove attraverso una nuova condizione di sé) e l’adesso dello svolgersi della performance, manipolando sovrapposizioni anagrafiche tra il detto in video e quello live; un crash che disarciona lo sguardo, scompone la linearità degli eventi narrati, innesca dubbi sulla veridicità di quelle storie. Alterità, estraneità, straordinarietà, per dirla con Emmanuel Lévinas le persone-personaggi di Panorama ordiscono a rappresentare – a presentare di nuovo l’asimmetria del tempo prossimo, quello ch’è già stato e che sta accadendo nel frattempo. Si espongono, dunque, ognuno col proprio dolore e la propria affezione. Il set ricostruito ha sui lati due postazioni di regia dove di volta in volta vanno a sedersi i performer dopo la loro “presentazione”, sono occupati anche da fumetti, pennarelli, libri e action figure, che i performer a loro volta riprendono con una videocamera o lo smartphone che rimandano in diretta le immagini su pannelli posti di lato. I performer provengono dalla Great Jones Repertory Company, ala de La MaMa Theatre di New York.

Foto Theo Cote

Un teatro di testimonianza e di “eversione”, che ha raccolto le storie di questi sei performer, le loro fughe e i loro approdi più disparati, tutti memori di un racconto di figli di genitori che hanno toccato con mano l’eredità del Vietnam o della Corea o di sovvertimenti da altre zone del pianeta. E oggi donne e uomini, ragazzi con il corpo parlante provenienti da tutto il mondo, sono migranti e squarci urbani di emarginazione, abbandoni e mediatizzazioni sessuali che si raccontano. Chi dalla Turchia ha avuto a che fare con la costrizione poliziesca, chi s’aggrappa alla rivendicazione di una appartenenza alla militanza omosessuale, il teatro è lì per scardinare l’arbitrio della verità, uno spazio del reale anche quando vengono esposti le personali inquietudini sulla capacità della scena di restituirne una verità. Il piano di consapevolezza mediale è per questo altissimo, un registro registico attento a non sovrapporre i linguaggi ma a renderli fluidi nei rispettivi approcci narrativi dentro un tessuto sonoro compatto e incessante. Gli States che escono sono quelli di queste ore dell’era trumpiana, lasciata in balia del rancore nei confronti del quale il teatro riesce medicamentoso. Questi performer sono figli di un mix di culture e caratteristiche e preferenze, tutti stranieri residenti fondamento e criterio della comunità direbbe la filosofa Donatella Di Cesare, questo Panorama, pertanto, è portatore di un valore prima di tutto esistenziale, nonché politico. Bellissimo!

Foto Joung Sun

Panorama

ideazione e regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

drammaturgia Erik Ehn e Daniela Nicolò

con gli attori della Great Jones Repertory Company Maura Nguyen Donohue, Richard Ebihara, John Gutierrez, Valois Mickens, Eugene the Poogene, Zishan Ugurlu

assistenza alla regia Lola Giouse

musiche Heather Paauwe

sound design Enrico Casagrande

light design Daniela Nicolò

scenografia Seung Ho Jeong

allestimenti Damiano Bagli

progetto visivo Bosul Kim

video design CultureHub NYC con Sangmin Chae

assistenza e consulenza tecnica video e luci Paride Donatelli, Andrea Gallo, Alessio Spirli (Aqua Micans Group)

direzione tecnica (USA) Yarie Vazquez

direzione tecnica (Europa) Paride Donatelli

Romaeuropa Festival, Teatro Vascello, dal 31 ottobre al 3 novembre 2018.