Passi a due sul tema del male di Katia Ippaso

Foto di Emiliano Luciani

Dopo tanta singolitudine, si riaffaccia con forza sulla scena il numero due, che ci riporta poi all’origine, quando la presenza nello stesso spazio di un protagonista e di un deuteragonista sancì l’invenzione del teatro. In pochi giorni, ci è capitato di assistere a tre spettacoli di valore che fanno trasparire alcuni elementi in comune: il match tra due attori che si confrontano duramente in palcoscenico e l’adesione – poetica, politica, emergenziale – alla drammaturgia contemporanea. Oltretutto, i tre spettacoli affrontano, anche se in forme diverse, il problema del male. Parliamo di: Brevi interviste con uomini schifosi di David Foster Wallace con Lino Musella e Paolo Mazzarelli, The Spank di Hanif Kureishi diretto da Filippo Dini, in scena con Valerio Binasco, e L’uomo più crudele del mondo scritto e diretto da Davide Sacco, protagonisti Lino Guanciale e Francesco Montanari.

Chi è il più crudele?

Partiamo dal testo italiano, visto al Teatro Manini di Narni di cui Sacco è anche co-direttore, assieme a Montanari. Già in partenza era difficile dubitare del fatto che due volti così familiari avrebbero attratto un pubblico numeroso e ben disposto. Ma c’era l’incognita, non indifferente, dell’accoglienza che avrebbe avuto un’opera scritta da un autore poco più che trentenne. Di sicuro, lo stesso testo con due attori meno noti non avrebbe acceso i riflettori nello stesso modo.  Eppure, dietro quest’operazione non sembra esserci ombra di quegli interventi chirurgici fatti dai produttori a tavolino per procurarsi un successo facile. Come ha raccontato lui stesso, Francesco Montanari si è trovato a leggere il testo ancora prima di sapere chi fosse l’autore. Se ne è innamorato e come sponda ha chiamato un collega di cui aveva molta stima. Guanciale ha detto di sì ed ecco che, per la prima volta, i due attori si confrontano in un duello scenico alla pari. In un ambiente underground, fatto di luci fioche e ondeggianti, materiali di scarto che fanno pensare ad un’autorimessa, si consuma una revenge tragedy.

Foto di Emiliano Luciani

Ma che si tratti di “tragedia della vendetta” riusciamo a capirlo da un’unica battuta, quella finale. In effetti, è in opera tutto il repertorio di immagini e figure che attingono al modello del teatro elisabettiano, ma concentrate in un atto unico con soli due personaggi. Lino Guanciale è Paolo Veres. Di lui si dice che sia a capo di una fabbrica di armi che vende a mezza Europa. Anche se il luogo in cui si svolge la tragedia non fa proprio pensare all’ufficio di un uomo che procura morte ma si presume si muova nel confort. Si dice anche, di Paolo Veres, che abbia vissuto nell’ombra, che non si sa nulla della sua vita privata. Cosa sappiamo invece dell’altro protagonista? Francesco Montanari si presenta in scena dimesso e di sé stesso dice: sono un uomo normale con comportamenti e abitudini normali. Lavora in un piccolo giornale che non legge nessuno. L’industriale l’ha chiamato perché sostiene di voler essere intervistato per la prima volta. Ma perché avrebbe scelto proprio quest’incolore creatura per affidargli il ritratto che non ha mai consegnato a nessun altro? Nel giro di poche battute, il modello narrativo dell’intervista precipita in quello del sequestro, dove a fare le domande è lo stesso Veres, che costringe l’altro, in cambio di soldi, a un tremendo gioco della verità. Veres chiede di essere ucciso, ma è soprattutto l’altro che tiene la pistola in mano. Per tutta la durata del match, il pubblico è chiamato a interrogarsi sul bene e sul male, cercando di anticipare le mosse dell’uno e dell’altro. La situazione è sufficientemente claustrofobica e stringente, anche se un accanito lettore di gialli potrebbe soffrire per qualche zona oscura. Come è possibile, per esempio, che, nel caso Veres fosse stato trovato morto l’indomani mattina, il giornalista possa veramente farla franca? Il direttore del suo giornale sapeva dove si trovava quella sera. Oppure: come mai imprenditore e giornalista finiscono casualmente proprio nello stesso buco di mondo? (la fabbrica è qualcosa di tangibile e materico che non si crea con la velocità di un post su Facebook). E infine: se il crimine di cui veniamo a sapere solo alla fine è stato commesso ai danni della figlia di un personaggio noto, come è possibile che il carnefice, che pure fa un mestiere (almeno così si dice) legato alle notizie, non lo sappia? Ci facciamo queste domande solo perché il testo, pur oscillando tra indagine realistica e dimensione metafisica, chiama in campo dettagli di realtà, se non di cronaca, legati al mondo delle news, alla fabbrica delle armi e soprattutto alla violenza sui minori. Non sceglie, come fece Vincenzo Cerami, solo per fare un esempio, la figura di un uomo qualsiasi fuori dal mondo per scrivergli addosso Un borghese piccolo piccolo. Complessivamente, però lo spettacolo è intrigante, ben recitato e ben diretto. Vi si legge, in trasparenza, la capacità di diventare opera filmica, che ci auguriamo sinceramente di vedere (a quel punto, in sceneggiatura, bisognerà rispondere a tutte le domande di un lettore-spettatore antipatico). Il merito maggiore del testo di Davide Sacco (che, con La ballata dei maiali e Sesto potere, fa parte di una trilogia), è quello di affrontare in una maniera dinamica la questione del male. Come si misura la crudeltà? Fino a dove si può spingere un uomo? E chi può in tutta onestà porsi dalla parte della purezza? Non è proprio nell’apparente normalità che si deve andare a cercare il seme della follia criminale? Attraverso il personaggio di Veres, Sacco cita tre libri, la Bibbia («per contraddire»); Dostoevskij («per capire») e un libro per bambini («per ricordare»). 

Il piacere del testo

La Bibbia e le opere di Dostoevskij potrebbero figurare in controluce anche nel secondo set di questa veloce analisi di kammerspiel italiani. Brevi interviste con uomini schifosi (visto al Teatro India di Roma) è un lavoro drammatico che usa come materiale di partenza la scrittura erosiva di David Foster Wallace, uno dei geni del secondo Novecento, morto suicida a soli 46 anni, nel 2008. Dei ventitré racconti che compongono la raccolta di Wallace, l’argentino Daniel Veronese ha estratto otto storie, che ha disposto sulla scacchiera di una scena bianca e nera, con i due attori-amici Lino Musella e Paolo Mazzarelli impegnati a recitare ora l’uomo schifoso ora la donna che lo subisce.

Foto di Marco Ghidelli

È una messa in dialogo che prelude a una messa in spazio altrettanto luminosa, che lo spettatore segue con intermittente sorriso, producendosi in qualche (sporadica) risata che va a confermare quello che Roland Barthes chiamava “il piacere del testo”. Laddove per piacere del testo intendiamo il riconoscimento di una scrittura alta, bella da leggere e da ascoltare, feroce e lieve al tempo stesso, umoristica e compassionevole. Ma piacere del testo è anche quello che chi guarda prova, riconoscendo nella grammatica spietata degli umori e dei discorsi la verità dei fatti, la nominazione del non dicibile. È per questo che la Bibbia e Dostoevskij c’entrano molto con queste scene disegnate da Wallace che, come giustamente scrive Zadie Smith nel suo saggio che accompagna il volume delle Brevi interviste con uomini schifosi (edito in Italia da Einaudi), vanno lette come se si fosse in preghiera, perché in preghiera si era disposto l’autore descrivendo questi casi umani. E c’è anche Raymond Carver in trasparenza, lo scrittore che più di tanti altri si è spinto ad indagare i balli tristi e comici degli esseri chiamati uomini colti sull’orlo del precipizio. Nelle mani di Daniel Veronese, Brevi interviste con uomini schifosi è diventato un format che si può recitare in lingue diverse. Il regista (anche autore a sua volta) è partito dalla sua lingua, lo spagnolo, partitura di riferimento per Aldo Grompone e Gaia Silvestrini, che ci hanno consegnato una bellissima traduzione. E veniamo agli attori. Lino Musella e Paolo Mazzarelli si conoscono da 20 anni. Nel 2003 si sono trovati per la prima volta in scena nei panni di Cassio e Bruto. Nel 2008 hanno creato la compagnia che porta, con semplicità, i loro due cognomi: MusellaMazzarelli. Negli anni, hanno lavorato anche altrove, al cinema e in tv (ricordiamo il folgorante Benedetto Croce di Musella in Qui rido io di Martone e il verosimile Umberto Bossi di Mazzarelli in 1994), ma sono stati sempre felici di tornare a lavorare insieme. In questo caso, lo spettacolo non porta la firma della loro compagnia, ma tutto ha voluto che si trovassero accanto, su questo palcoscenico scarno, con i loro abiti neutri, figurine nere in un ambiente bianco. Senza nessuna enfasi (e soprattutto senza nessuna fretta), i due attori danno voce alle abiezioni e alle storture che può comprendere una situazione familiare, amorosa o amicale. Le varie situazioni proposte (da “Radicale” a “Devi chiudere il negozio”, da “Paternal” a “Gallina”) scolpiscono una vasta gamma di comportamenti umani che forse non sono stati ancora scandagliati dagli antropologi. E c’è, indubbiamente, tra le pieghe di una scena gentile, educata, monocromatica, anche il pensiero ossessivo della morte. Non si può non pensare, assistendo a Brevi interviste con uomini schifosi, al modo con cui David Foster Wallace è uscito dalla scena del mondo, togliendosi la vita un giorno come tanti, quando era nel pieno del successo e della felicità coniugale. «A colui a cui è stato dato assai, assai sarà ridomandato» diceva lo stesso Wallace. Forse la sua mente era piena di troppi mondi, troppe parole, per riuscire a restituire anche solo una parte di quel dono. Ed è con una grazia estrema, con una “presenza” assoluta, che Lino Musella e Paolo Mazzarelli restituiscono quel traffico di immagini e di figure che non hanno fine, nella crudeltà esibita come nella passività. Perché anche quando recitano il ruolo muto della donna sono perfettamente presenti. In questo senso, Brevi interviste con uomini schifosi è un manuale vivente di recitazione e di regia intesa come direzione d’attore. Qui si dimostra, come non accadeva da tempo di registrare, il valore della controscena. Con precisione millimetrica, si costruisce il piano d’ascolto: specchio in miniatura di quello che poi accade nella relazione biunivoca tra palcoscenico e platea.

Scene da un’amicizia

Foto di Luigi De Palma

L’intesa scenica ci porta, infine, a The Spank, visto al Teatro Parioli di Roma: un classico contemporaneo che allinea la scrittura di Hanif Kureishi, e l’eleganza registica di Filippo Dini, che ha trovato in Valerio Binasco il perfetto partner. In questo caso, gli uomini con cui abbiamo a che fare non sono né particolarmente cattivi, né schifosi. Eppure, anche qui si affronta il problema del male, in una sua declinazione precisa: il fare del male, magari senza volerlo. Siamo a Londra, oggi. In un mondo sotterraneo che non ha bisogno di particolari segni perturbanti per definirsi simbolico: un bar in cui due amici storici si danno sempre appuntamento. The Spank è il nome del locale in cui Sonny (Valerio Binasco) e Vargas (Filippo Dini) si incontrano. Collocato sotto il livello della strada, rappresenta un angolo invisibile agli altri. Non è abitato da nessuno se non dal dentista Sonny e dal farmacista Vargas, che sono anche soci in affari. Ed è tra le pareti altissime e gli specchi dei suoi spazi – tanto più realistici quanto più tenebrosi – che si consuma un dramma che potremmo definire romanzesco. Hanif Kureishi ha l’abilità di nominare personaggi extra-diegetici come se la sua penna fosse una macchina da presa. Ed ecco quindi, convocati in scena, i numerosi personaggi nominati da Sonny e Vargas, che hanno un peso notevole nell’evoluzione della loro storia: le mogli e i figli. Il dramma parte dalla fine, da Vargas che scende le scale per visitare, forse per l’ultima volta, il caffè The Spank. Cosa è andato storto con Sonny? Perché tutto è naufragato? Come è possibile? Da dove è cominciata la caduta? Perché ha tradito l’amico? Ma chi ha tradito per prima? La seconda scena ci riporta all’origine di tutto, a quella prima agnizione: Sonny confessa a Vargas che la donna con cui si è presentato qualche giorno prima sull’uscio di casa dell’amico (per chiedere una racchetta da tennis) è la sua amante. Come reagisce Vargas? In un modo del tutto sorprendente. Un modo che lo disallinea dalle figure degli uomini schifosi che abbiamo conosciuto finora, senza che questo però gli salvi l’anima. Vargas, che ha un alto senso della famiglia, non offre la propria complicità a Sonny. Decide così di parlare del segreto dell’amico alla moglie, che a sua volta dice tutto alla moglie di Sonny. La caduta rovinosa di Sonny non fa che anticipare, o meglio prefigurare, la caduta di Vargas, la cui vocazione alla verità tradisce pulsioni inconsce che faticano a emergere. In The Spank non ci sono scenate, urla, vendette meschine, manca tutto quel repertorio di gestualità estreme a cui ci ha abituato il cattivo cinema e la cattiva televisione e, vogliamo dirlo, anche il cattivo teatro. Qui è in campo l’osservazione analitica dei comportamenti umani e delle ripercussioni che il vivere in società (e in famiglia) porta nella vita dell’individuo. Sotto la lente d’ingrandimento di Kureishi ci finisce, questa volta, l’amicizia. «Io preferisco parlare con un amico in un caffè tranquillo che con cinquanta conoscenti a una festa. Non solo è un piacere in un certo senso più intimo, ma funziona anche perché́ con l’amico c’è un confine: hai la consapevolezza di dove sei. Ho avuto una serie di amici uomini, la maggior parte più̀ grandi di me, e tutti mi hanno aperto un mondo, ognuno a modo suo. Da ragazzino ero sempre insistente e curioso: volevo sapere tutto ed essere incoraggiato dagli altri. Un amico intelligente può̀ ridefinire le cose per noi: vedere le cose come le vede l’amico rende improvvisamente piacevoli nuovi oggetti» scrive lo stesso Kureishi nell’introduzione della sua opera, tradotta in italiano da Monica Capuani.  C’è quindi uno sguardo benevolo alla base di The Spank, che lo spettacolo di Filippo Dini (arrivato ad una maturità espressiva sia come interprete che come regista) traduce sulla scena senza correre, trovando, assieme a Valerio Binasco, il giusto equilibrio per un passo a due destinato sicuramente al successo. Un’unica annotazione: nella didascalia iniziale, Kureshi (nato a Londra nel 1954 da madre inglese e padre pakistano) scrive: «Vargas, Sonny. Due uomini sui cinquantacinque anni. Almeno uno dei due dovrebbe essere di colore».  In Inghilterra e in Francia sarebbe stato naturale trovare l’attore black per interpretare Sonny o Vargas, che sono entrambi descritti come londinesi immigrati. In Italia, invece, continuiamo a dipingere di nero solo il volto degli immigrati sui barconi. L’integrazione, da noi, è un processo estenuante e tortuoso.

L’uomo più crudele del mondo 

scritto e diretto da Davide Sacco
con Lino Guanciale e Francesco Montanari
scene Luigi Sacco
luci Andrea Pistoia
aiuto regia Claudia Grassi.
Produzione LVF, Teatro Manini di Narni e Teatro Bellini di Napoli.
Teatro Manini, Narni, dal 9 al 12 febbraio 2022.
In tournée dalla prossima stagione.

Brevi interviste con uomini schifosi

di David Foster Wallace
regia e drammaturgia Daniel Veronese
traduzione Aldo Miguel Grompone e Gaia Silvestrini
con Lino Musella e Paolo Mazzarelli.
Produzione Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, Marche Teatro, Tpe Teatro Piemonte Europa, FOG Triennale Milano Performing Arts, Carnezzeria srls, con il sostegno del Teatro di Roma-Teatro Nazionale, in collaborazione con Timbre 4 Buenos Aires.

Prossime date:

Teatro Astra, Torino, dal 15 al 20 febbraio 2022.
Triennale Teatro dell’Arte, Milano, dal 22 al 24 febbraio 2022.
Teatro Sperimentale, Ancona, dal 4 al 5 marzo 2022. 

The Spank

di Hanif Kureishi
traduzione Monica Capuani
regia Filippo Dini
con Filippo Dini, Valerio Binasco
scene Laura Benzi
costumi Katarina Vukcevic
luci Pasquale Mari
musiche Aleph Viola
aiuto regia Carlo Orlando
assistente regia Giulia Odetto.
Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale.

In tournée.