Lavori in corso: impressioni da Teatri di Vetro di Paolo Ruffini

Foto di Margherita Masè

E dunque, si diceva, a cosa può ambire oggi la danza? A un corpo che si muove nello spazio? A un comportamento codificato con annessi discorsi effimeri ritornanti? A un’arabesque di sollecitazioni scolastiche? Geometrie e pesi? Appunti sul cos’è stata e cosa potrebbe essere? Posture, fotogrammi di una condizione? Oppure una espansiva dimenticanza accompagnata questa da una certa joie de vivre come nell’”involontario” televisivo Inferno di Roberto Castello, lì a solleticare il consueto e l’ordinario? Uno spunto per spostare l’asticella un po’ più in là dei discorsi sulla danza, nei territori non scontati di una frizione propria al linguaggio e alle motivazioni che la innervano, ci giunge sicuramente dall’appuntamento di Teatri di Vetro, orientato quest’anno con maggiore forza nel “riqualificare” le intenzioni della danza costringendo questa a trovare punti di contatto tra opposte inquietudini, soprattutto nell’attuale nuovo millennio dove si dichiarano con grande evidenza teoretica una  volontaria e politica “smemoratezza” e una “riconciliazione” post-ideologica tra generazioni. E il festival lo ha fatto costruendo per tasselli apparentemente monogami specifici focus sugli artisti ospitati, quasi delle piccole biografie affettive – con progressivi avvicinamenti, approfondimenti teorici e presentazioni di sezioni di lavoro che si sono aperte precedentemente e in altre sedi rispetto al Teatro India – i quali hanno dato modo di calibrare incontri maggiormente strutturati con gli autori, non lasciando perciò alla sola visione dello spettacolo la responsabilità del manifestarsi dell’opera. Ma pur sempre di spettacolo si tratta, ricordiamolo, anche quando assume l’aura liturgica di una processualità “spirituale”, quella certa “sacralità” d’artista che taluni ancora perseguono con (sana) ostinazione. Espunto come un bubbone e rivoltato come un calzino, tutto il Novecento e questo accenno del Ventunesimo secolo ce lo hanno insegnato, l’artista non può che raccogliere i cocci di una sostanziale indifferenza in un sistema che si sta di nuovo “spettacolarizzando” prediligendo soltanto cortigiani dell’estetica. Ora, di artisti parliamo con tutta la loro fragilità nell’esserlo in un tempo che non li prevede, o almeno non ne prevede il “senso”, a fronte di rimasugli post-novecenteschi e incrinature autoriferite della critica e di operatori, nella danza in particolare, appianate su un concetto di opera addomesticata al gusto rassicurante delle tradizioni consolidate (comprese quelle non dichiarate come tali). Al festival romano guidato da Roberta Nicolai, sempre impegnata nel ridisegnare in termini filosofici la mappa percettiva dei contributi artistici coinvolti (anche con qualche forzatura che tuttavia bene si staglia per marcare differenze), si sono colte sollecitazioni che di fatto insistono nel diagramma dell’autoformazione e dell’esercizio critico su se stessi, per cui ogni artista è chiamato a proporre porzioni di un frastagliato corpus esistenziale, in quella ricerca che ordisce l’orizzonte in progress dell’intenzione nel definire, sembrerebbe, piuttosto uno stare e attraversare l’opportunità della danza, verso un “racconto” (precario) d’arte, che una idea coreografica vera e propria.

Foto di Margherita Masè

Un posizionamento ormai chiaro è quello di Fabritia D’Intino col suo trascorrere tempo immoto indagando i tracolli della danza sul limite di un “repertorio” in trasformazione, tra corpo sbilanciato nella dance e archivio di soggettività rivoltate: che sia il Cancan scuro e depotenziato, quasi un rituale dell’immaginario contraddetto nelle posture alterate di un movimento rappreso, introiettato, o l’inabissante e volumetrico Wannabe, dove l’afflato sessualizzato di una overdose del femminile si auto-rappresenta oltre i propri limiti, e qui smontati e ricomposti dalle “proteiche” sonorità di Federico Scettri questi limiti ritraggono figure ispessite da un consumo voyeuristico, e che emancipa il concetto stesso di percezione, persino di visione, approdando a una spaesante e interessantissima gradazione ulteriore di un vocabolario non solo coreografico.
Un eguale valore di ricognizione concettuale e allo stesso tempo processuale è l’”esperienza” che la D’Intino, Giuseppe Vincent Giampino e Riccardo Guratti imbastiscono in Booster, intersezione e messa a disposizione reciproca di una relazione creativa che smonta il significato di opera quale atto verticistico e assoluto, per interdire gli stessi presupposti di indipendenza compositiva, offrendo allo spettatore porzioni di lavoro scenico o discorsi sulla creazione. Lavoro, dunque, di svuotamento e rivelazione, un “dono” allo spettatore, appunto, che accenna all’opera ma ne libera, come un trasudo, un lento sciabordio tra marosi, l’essenza coreografica sintesi dei rispettivi approcci e condivise metafore gestuali. Booster è probabilmente uno dei lavori che meglio “rappresenta” il pensiero di questa edizione di Teatri di Vetro, tutto è detto qualcosa viene mostrato, il resto ne è occultato per calibrarne una restituzione decisamente poetica dentro un pensiero collettivo marcato dalle singolarità dei tre interpreti-autori.

Foto di Margherita Masè

Anche Naturans – da Auguste Rodin di Alessandra Cristiani (in scena con il sound artist Ivan Macera) seppure rovisti tra le significazioni proprie alla performer in quell’indagine della superficie corporea, riflesso di uno spazio-tempo interiore, ancora una volta riesce ad amplificare le ripercussioni vibratili e identitarie di una figura percepita in movimento in quello stare ch’è sintesi e filigrana, a suo modo traslato e segno. E se la Cristiani insiste nel cuneo che si è scelta da anni di una profondità in trasparenza, impropriamente “incastonata” nel rilascio contemporaneo del butō per una ricerca tutta estroflessa nella natura del gesto, il percorso della compagnia Opera Bianco alterna incursioni nell’emisfero delle arti visive e non solo come suggestione della performance rimasticando tutto un immaginario materico riconducibile a maestrie che la compagnia dichiaratamente omaggia o non ne nasconde l’eredità.

Foto di Margherita Masè

Questo loro ultimo lavoro Jump! concentra l’attenzione ancora una volta in quella diagonale che unisce azione apparentemente anarchica e disegno figurale preciso, anche fin troppo svelato nei quadri video, cercando di attualizzare il paesaggio straniante di Buster Keaton con derivazioni clownesche mostrando così “irradiazioni” fisiche di attori-danzatori che entrano ed escono dallo spazio scenico con la stessa interferenza “interpretativa” messa in atto a suo tempo in Otto e in Alcuni giorni sono migliori di altri da Kinkaleri; tra filiazioni pittoriche e trasfigurazioni alla Bill Viola, lo spettacolo alterna momenti ilari e paradossali a caratterizzazioni emotive intense, persino commoventi, laddove però una certa cifra del “recitato” non lo svincoli del tutto da una forma che non gli si addice. Il festival è stato anche tanto altro nella cerniera della danza, un set di immagini in quadricromia in parte lì a segnare il passo su una questione che è nella danza se assumiamo la danza a frullatore simbolico del presente, ovvero di una fatica nell’autodeterminazione da parte degli artisti a fronte di una sostanziale desertificazione di interlocutori competenti e aggiornati, colpevoli soprattutto di eludere dal discorso l’ampia temperatura che il performativo ridisegna all’interno del pensiero danzato.