Umbria Factory Festival, prima edizione di Carolina Germini

Quando arrivo a Foligno la città è avvolta dalla nebbia ed è difficile distinguerne i contorni, soprattutto per me che non ci sono mai stata prima. In questo spaesamento che tanto mi ricorda le atmosfere di Nostalghia di Tarkovskij, inizia la mia avventura alla prima edizione dell’Umbria Factory Festival, un nuovo esperimento portato avanti da ZUT! (organizzato da Michele Bandini, Emiliano Pergolari, Elisabetta Pergolari, Mariella Nanni e David Rinaldini), una realtà che dal 2014 ha intrapreso un percorso multidisciplinare con l’idea di unire diversi linguaggi artistici, attraverso rassegne teatrali e musicali, residenze e una ricca stagione teatrale. Dopo più di un anno di chiusura, lo Spazio ZUT! ha riaperto le sue porte e lo ha fatto ospitando gli spettacoli del Festival. Ma questo non è il solo ad accoglierli: gli spettatori si spostano da un punto all’altro, in luoghi meravigliosi come l’Auditorium Santa Caterina e l’Auditorium San Domenico, rendendo così viva l’esperienza con la città. Gli affreschi sulle pareti di quelle che un tempo erano Chiese rimandano a una storia che riemerge dal passato e che incontra la drammaturgia contemporanea, come nel caso di Stay Hungry – Indagine di un affamato di Campolo/DAF. Angelo Campolo è un attore e regista messinese, che da anni conduce un lavoro di ricerca teatrale attraverso dei laboratori che coinvolgono giovani migranti. Il suo racconto personale viene scandito dai vari punti dell’ennesimo bando a tema sociale da compilare. In un mondo in cui la parola integrazione sembra essere il requisito essenziale per accedere a qualsiasi tipo di finanziamento e in cui la logica della burocrazia domina ogni cosa, l’esperienza diretta di chi con i migranti ci lavora ogni giorno ha un potere immenso di mostrare la realtà nella sua pura essenza. Campolo riesce a creare con il pubblico un rapporto diretto e immediato, coinvolgendolo in uno scambio che ricorda quello che si vive in un laboratorio teatrale, riuscendo così a far rivivere le storie dei ragazzi che per arrivare in Italia hanno rischiato la vita.

Foto di Elvio Maccheroni

All’Auditorium Santa Caterina Bella Bestia di Luisa Bosi e Francesca Sarteanesi. Le due attrici se ne stanno sedute su due sdraio e hanno l’aria persa di Vladimiro ed Estragone. I loro dialoghi inizialmente sfiorano la soglia dell’assurdo ma a mano a mano si fanno reali. L’una domanda all’altra di imitare il proprio ginecologo, lo stesso che le ha diagnosticato un tumore e che le ha dato due anni di tempo per diventare madre prima di procedere all’asportazione dell’utero. La notizia inattesa della presenza di una bestia nel proprio corpo diventa l’occasione per riflettere sulle reazioni degli altri, sul loro egoismo, sulle loro paure che li spingono a ignorare il dolore degli altri per non dover pensare al proprio. Una clessidra, quella del corpo, che non tiene conto di un elemento prezioso: il tempo perso, quello consumato in rapporti di una notte. I messaggi vocali che ascoltiamo, sebbene registrati da uomini diversi, esprimono sempre lo stesso desiderio: quello di alimentare la bestia, nutrirla.  Espressioni volgari, allusioni e frasi oscene che lasciano il vuoto in chi le ascolta. Durante lo spettacolo sul palco aumentano sempre di più alcune statue di dobermann, metafora forse di quelle presenze maschili ingombranti o anche delle bestie che abitano ognuno di noi. Presenze minacciose e allo stesso tempo rassicuranti. Guardie del corpo ma anche cani rabbiosi. Attraverso uno scambio che in alcuni momenti ricorda quello di un rapporto psicoanalitico e in altri quello di due vecchie amiche, le due attrici riescono a far entrare lo spettatore in una dimensione intima e in un racconto di sofferenza, senza mai risultare patetiche.

Foto di Elvio Maccheroni

La Compagnia Muta Imago, guidata da Claudia Sorace, regista, e Riccardo Fazi, drammaturgo e sound designer, porta in scena uno dei più celebri racconti di Melville: Bartleby lo scrivano. La scelta è stata quella di costruire una trilogia dal titolo Racconti americani che include, oltre a questo testo, Farsi un fuoco di Jack London e Il nuotatore di John Cheever. In scena c’è solo uno schermo su cui vengono proiettate alcune riprese della città di New York. Il movimento della camera da un edificio all’altro sembra coincidere, oltre che con il nostro occhio, con quello di Bartleby, il protagonista indiscusso di questo racconto di Melville, che Gilles Deleuze ha definito violentemente comico. È vero, l’ostinazione di Bartleby nel dare sempre la stessa risposta, I would prefer not to, provoca un riso in chi la ascolta. Ma si tratta di un riso nervoso, che cela un certo imbarazzo, forse lo stesso che prova il titolare dello studio di New York in cui Bartleby lavora. E questo perché tale affermazione esclude ogni alternativa. Dopo averla pronunciata, Bartleby smette di copiare. Il suo comportamento, seppur assurdo, mostra una coerenza disarmante, che spinge il suo interlocutore ad arrendersi, a lasciare lo studio di cui lui stesso è a capo. In questo suo atteggiamento del tutto inatteso si cela quindi un grande mistero. Cosa l’ha spinto ad agire così? I movimenti di macchina lenti sui grattacieli di New York e le riprese fisse su alcuni dettagli degli edifici contribuiscono ad aumentare la tensione del racconto e a restituircelo in tutta la sua intensità.

Foto di Elvio Maccheroni

Umbria Factory Festival, Foligno e Terni, dall’11 al 14 e il 18 novembre 2021.