La deriva del sentimento, ovvero il dramma ch’è in noi di Paolo Ruffini

Primo di due capitoli di un progetto su Henrik Ibsen, in particolare su L’anitra selvatica, lo spettacolo di Federica Santoro e Luca Tilli è uno spasimo che lascia gli interpreti come deprivati dal sentimento, come prosciugati nell’animo, come un corpo esposto oltre la nudità. L’Ibsen qui è riverso dentro un materiale dell’oggi, affastellato ai miasmi dell’oppressione di un tempo in trasformazione, fin siècle oscurato dalla plasticità anaffettiva come un’opera espressionista – che accentua le motivazioni – e uno spazio contemporaneo metalinguistico. Lo spazio dove si rincorrono voci quasi fossero visioni spasmodiche mentre ci appare come una piazza d’armi, un conflitto aperto, un destino estremo rimandato momento dopo momento. Uno spazio scenico esploso dove rovistare tra finti tavoli in cartone, angoli della memoria, poltroncine da salotto bene appena accennato. Qui la parola ha il suo karma, la sua impuntatura iniziatica, anche seppure perfettamente a suo agio in quella certa rêverie un po’ vintage, la parola gioca il ruolo d’attacco precisa e maniacale, sfasante in quelle sue possibilità di una testimonianza, un monumento all’etica della parola stessa. Così sospesa nella fragilità dell’ascolto, così ortodossa nell’aspro confronto con ciò che viene offerto allo sguardo, così essenziale nelle filigrane di cui si fanno portatori Federica Santoro e Gabriele Portoghese, la parola sembra rincorrersi foneticamente e nei significati.

Siamo all’Angelo Mai, spazio totalmente aperto si diceva, lasciato occupare dai materiali di scena che sembrano raccontare una intersezione emotiva e allusiva che al tempo stesso amplifica il “racconto” ma lo destruttura, uno spazio di anime che intrecciano solo tangenzialmente le loro fisicità delegando agli interventi musicali di Luca Tilli una immaginaria orchestrazione di senso (in una vita che apparentemente il senso l’ha perso) eseguita con grande tensione e maestria. I sommersi (questo il titolo) è un quadro realistico ma con venature informali, scomposto e ricomposto come un panno appallottolato, come un cencio che assorbe e risputa forme immaginifiche, come il quadro appeso nello spazio scenico di Ettore Frani, così ogni movimento, ogni passaggio musicale, ogni portato della voce si deposita in questa chiave interpretativa sintetizzando una inequivocabile propensione alla libertà di smottare, irretire, contraddire tra gli spazi interiori e meno consueti della consapevolezza, tra il detto e il non detto, tra la traslitterazione della penombra fonetica e la scrittura chiara, tra il presente delle cose avvertite e enunciate e il passato di una memoria di fatto storica, inchiodata nell’impossibilità del testo di Ibsen di farsi materia prossimale (almeno apparentemente). Per questo, i due attori straordinari rintracciano volumi e sapienza di indecifrabilità narrante tra piccole rivelazioni e impazienti sottomissioni al dialogo interno che l’attore ha tra sé e sé. Stanza fatta di più stanze, dove un orso di peluche sposta concettualmente l’idea di un luogo del dolore che le (finte) chiazze e gocce rosse di sangue che maculano parte del pavimento evidenziano; dove albergano le diverse posture che gli attori svelano allo spettatore, più una dislocazione di connessioni verbali piuttosto che logiche conseguenze narranti sempre marcata da una straniante astrazione che bene raccoglie l’incipit di Ibsen che vagheggia tra moralismo e scarti grotteschi nella fotografia di un mondo di piccolo cabotaggio e borghese di fine Ottocento. Un mondo capace di tratteggiare il nostro tempo attuale, decisamente instupidito dal vuoto.

La società che ne viene fuori non è dissimile alla nostra di oggi, persino squisitamente puritana nella menzogna, con i contorni da serial televisivo che vede la famiglia degli Ekdal intrappolata nel rapporto con la famiglia Werle, senza riscatto, senza pietà. Chi sono i sommersi? Forse Hedvig, destinata a soccombere, forse Gina che alla fine si unirà a Hjalmar mentre Gregor cerca il proprio alito vitale in una testimonianza muta? Sommersi sono i personaggi “disossati”, una funzione direbbe Artaud, alla continua ricerca di colmare una mancanza affettiva e di prospettiva, lasciandosi andare nel mare del rancore, del “sarebbe potuto essere”, di una nera vanità che opprime l’animo, lo seduce e nei confronti della quale i due attori fanno collimare la loro partitura di inserti nervosi, accenni emotivi, sottrazioni verbali, tic comportamentali, caratteri fisici e propensioni sonore di grande spessore interpretativo, tutti in minore, in sottrazione, che si manifestano contraddicendosi, tutti nell’essere parte di un doppio sogno (quasi affacciandosi al mondo degli equivoci e della ferocia in quella freddezza clinica di Arthur Schnitzler), anzi amplificato di eco, per cui l’attore è uno e anche altro contemporaneamente.

 

I sommersi

liberamente ispirato a L’anitra selvatica di Henrik Ibsen

a cura di Federica Santoro e Luca Tilli

regia, allestimento e adattamento drammaturgico Federica Santoro

con Federica Santoro, Gabriele Portoghese, Luca Tilli

musiche Luca Tilli

disegno luci Dario Salvagnini

realizzazione elementi scenici Marina Schindler

collaboratori artistici Ettore Frani e Paola Feraiorni

il quadro in scena, del ciclo I sommersi, è del pittore Ettore Frani

foto di scena Alexander Corciulo

Angelo Mai, Roma, 13 e 14 ottobre 2018.