“EARTHBOUND – ovvero le storie delle Camille” Intervista a Marta Cuscunà di Simona Bisconti

Foto di Guido Mencari

Marta Cuscunà è attrice, autrice e performer di teatro visuale, una delle artiste più interessanti nel panorama teatrale italiano per quanto riguarda ricerca, sperimentazione e teatro di figura. Il suo lavoro è stato riconosciuto e premiato in Italia e all’estero, grazie allo straordinario talento e alle produzioni complesse e sorprendenti. Sarà prossimamente in scena il 1° e il 2 ottobre a Udine con l’ultimo lavoro EARTHBOUND – ovvero le storie delle Camille, realizzato insieme ai suoi collaboratori Paola Villani e Marco Rogante.

Earthbound ha dovuto aspettare a lungo il debutto a causa della pandemia, ma finalmente è arrivato sulle scene: che spettacolo è?

È uno spettacolo su cui abbiamo lavorato per due anni e mezzo, partendo dallo studio teorico di diversi testi, principalmente di ecofemminismo e di fantascienza femminista. Lo spunto principale è stato il saggio di Donna Haraway Staying with the trouble, in cui lei affronta i tempi «pieni di urgenze» che stiamo vivendo, cioè sull’orlo della catastrofe, e cerca un rimedio per la sensazione di game over che ne può derivare. Mi ha molto colpito che Donna Haraway proponga, per superare lo sconforto, la narrazione delle storie come metodo di cura dello spirito umano. L’idea di base è che attraverso la narrazione si possano dare alla nostra specie degli strumenti e delle soluzioni per sopravvivere su un pianeta danneggiato. Questo potere delle storie mi ha entusiasmata! Donna Haraway propone un esercizio di fabulazione fantascientifica e cioè di sviluppare collettivamente dei semi di trama che lei pone, per creare delle storie su un futuro possibile, con protagoniste delle piccole comunità di umani che decidono di andare a migrare in zone devastate del nostro pianeta con l’intento di risanarle.

Foto di Guido Mencari

A partire dalle suggestioni di Donna Haraway, Earthbound mette in scena una di queste piccole comunità, che abbiamo pensato essere più o meno nel 2100, per cercare di immaginare che cosa significhi per loro vivere in un pianeta danneggiato e cosa voglia dire mettere in atto strategie per risanarlo. Innanzitutto, questi esseri umani sono consapevoli che per raggiungere una vera giustizia climatica su un pianeta in cui le risorse non sono illimitate, il fatto di riprodursi illimitatamente non è una scelta sostenibile. Quindi attuano una politica di controllo delle nascite, basata sui legami di cura al posto dei legami biologici. Uno slogan che ritorna spesso è “fate legami non bambini”, che vuol dire che i nuovi nati e nate sono creature rare e preziose e che la scelta di mettere al mondo un nuovo essere diventa una scelta collettiva, di cui tutta la comunità è responsabile. Questi nuovi nati, definiti “Camille”, sono simbionti, cioè esseri umani il cui patrimonio genetico è stato ibridato con quello di specie in via di estinzione. Donna Haraway immagina che questo da un lato possa salvaguardare quelle specie che altrimenti andrebbero perdute e dall’altro possa offrire alla nostra specie una nuova prospettiva per risanare quella dicotomia che noi come specie abbiamo stabilito, in cui natura e cultura sono due mondi separati e che ha proiettato la nostra specie al vertice di una piramide dal quale dominare e sfruttare tutte le altre specie e il mondo stesso.

Donna Haraway dice che «le storie fanno i mondi e i mondi fanno le storie», quindi si tratta di un esercizio di creazione ma anche di speranza, per una visione alternativa rispetto alla realtà che conosciamo, a livello sociale, ecologico e politico.

I mondi, gli altrove, immaginati da queste autrici di fantascienza femminista sono sempre degli altrove politici, in cui riuscire a mandare all’aria i cliché di genere, razza e specie che noi viviamo nel presente. La fantascienza e il linguaggio teatrale permettono di dare forma a dei contenuti politici, a delle idee che riguardano noi adesso e il nostro rapporto tra i generi della nostra specie, tra noi e le altre specie e tra noi e il pianeta. Quello che speravamo di proporre è un esercizio collettivo di riflessione su che cosa voglia dire essere umani.

In Earthbound gli esseri umani ibridati con altre specie, i simbionti, sono pupazzi animati che definisci “creature meccaniche”: qual è il processo creativo di realizzazione di questi oggetti? E qual è il rapporto del tuo lavoro con il teatro di figura?

Le chiamiamo creature meccaniche o animatroniche. La movimentazione è sempre meccanica, ma ci ispiriamo al mondo degli effetti speciali. Il percorso di realizzazione è stato lunghissimo, siamo abituati a usare la prototipizzazione. Lavorare per prototipi è la modalità che viene applicata nel design industriale, cioè si parte dal presupposto che il primo progetto costruito sulla teoria non riuscirà a prevedere e risolvere tutti i problemi da risolvere nella pratica. È un percorso sperimentale, che include l’errore nel processo artistico e che tiene in parallelo la progettazione meccanica, la ricerca iconografica, cioè l’estetica dei pupazzi, e la drammaturgia che evolvono insieme, a seconda delle esigenze.

Foto di Guido Mencari

Il cinema e gli effetti speciali permettono di non rispettare le leggi fisiche del movimento umano, invece la messa in scena teatrale ha dei limiti che principalmente sono le misure del mio corpo, che è unità di misura della scena, anche come forze che i miei muscoli possono imprimere ai materiali.
Con Earthbound è la prima volta che io interpreto un personaggio, non semplicemente la manovratrice neutra o la narratrice. La sfida che abbiamo affrontato è stata quella di bilanciare il fatto che i simbionti, che sono creature meccaniche, dovessero apparire agli occhi del pubblico le creature più umane della scena e che invece il mio corpo umano dovesse apparire meno umano delle creature meccaniche. La scelta è stata di deumanizzare il mio corpo, così in scena incarno l’intelligenza artificiale del futuro, che abbiamo chiamato Gaia, che aiuta i simbionti come fa la nostra Siri. 

Rispetto all’estero, in Italia il teatro di figura è meno conosciuto, ha meno risonanza e forse è anche più etichettato come intrattenimento per bambini. Qual è la tua esperienza e cosa sarebbe auspicabile?

Sono stata fortunata perché sono riuscita a entrare nel sistema teatrale venendo incasellata in altre etichette, di teatro civile e teatro di narrazione. I miei lavori venivano presentati a un pubblico che non si aspettava di trovare le figure in scena. È stato questo felice connubio di linguaggi diversi che mi ha fatto uscire dal piccolo recinto del teatro di figura italiano. Credo che forse la soluzione sia proprio cominciare a ibridare molto di più i linguaggi, anche perché la mia esperienza è che spesso il pubblico si sorprende positivamente di trovare interessanti ed efficaci i pupazzi. Tra l’altro la progettazione e la ricerca meccanica riescono ad agganciare e affascinare anche un pubblico che è più affascinato dal mondo ingegneristico e che dentro ad altri contesti scopre poi il teatro di figura.

Foto di Guido Mencari

Dietro ai tuoi spettacoli c’è sempre moltissima ricerca, studio, ma soprattutto una visione precisa e coerente che dalle storie di «resistenza femminile» è arrivata alla fantascienza femminista. Che cos’è che vuoi portare al pubblico?

La cosa che mi piace condividere è la sorpresa, e anche il sollievo, che mi ha dato leggere il pensiero di Donna Haraway: riuscire a trovare delle forme piacevoli, leggere e ironiche per condividere pensieri molto profondi che in Italia arrivano anche un po’ in ritardo. Come Paese scontiamo il limite di pensare che scienza e arte oppure scienze umane e scienze dure non possano avere a cuore gli stessi argomenti, porsi le stesse domande e quindi unirsi per trovare delle risposte. I tempi ci pongono la sfida di realizzare un’azione collettiva e rapida che l’umanità non ha mai affrontato. Il sistema patriarcale dominante è un sistema che ha mostrato ormai in modo evidente di essere fallimentare, la soluzione sarebbe rivoltarlo completamente e accettare con coraggio una proposta completamente diversa. Quindi smantellare le dinamiche e gli stigmi che relegano ai margini determinate identità, determinate precarietà, le quali forse possono diventare una guida, un faro di questi tempi. Mi riferisco agli studi di Riane Eisler, che distingue i sistemi sociali basati sulla dominazione di qualcuno su qualcun altro, in cui la differenza diventa sinonimo di superiorità o inferiorità, dai sistemi sociali basati sulla partnership, la collaborazione, in cui differenza non è sinonimo di superiorità o inferiorità. Si tratta di costruire legami. Come in Earthbound.

EARTHBOUND – ovvero le storie delle Camille

di e con Marta Cuscunà
scena Paola Villani
assistente alla regia Marco Rogante
progettazione animatronica Paola Villani
realizzazione animatronica Paola Villani e Marco Rogante
scultura creature animatroniche João Rapaz, Janaína Drummond, Mariana Fonseca, Rodrigo Pereira, Catarina Santiago, Francisco Tomàs (Oldskull FX-Lisbona)
dramaturg Giacomo Raffaelli
disegno del suono Michele Braga
disegno delle luci Claudio “Poldo” Parrino
direttore tecnico Massimo Gianaroli
direttore di scena, capo elettricista e fonico Marco Rogante
macchinista Simone Spangaro / Jurgen Koci
scene costruite nel laboratorio di Emilia-Romagna Teatro Fondazione
sponsor tecnico igus® innovazione con i tecnopolimeri
pulegge Marta s.r.l. forniture per l’industria
costruzioni metalliche Righi Franco Srl
fili d’acciaio e guaine per freni di biciclette Franza Giuseppe
produzione EMILIA ROMAGNA TEATRO FONDAZIONE, CSS TEATRO STABILE DI INNOVAZIONE DEL FVG, ETNORAMA
con il sostegno di São Luiz Teatro Municipal (Lisbona)
con il supporto di Istituto Italiano di Cultura di Lisbona, i-Portunus, A Tarumba – Teatro de Marionetas (Lisbona), i cittadini e le cittadine che hanno aderito al progetto #iosonoMecenate
in collaborazione con Dialoghi – Residenza delle arti performative a Villa Manin 2018/2020.

Teatro Palamostre, Udine, 1° e 2 ottobre 2021.