Antonio Attisani. Atto secondo. Nel mare del teatro (1966-1993) di Alfio Petrini

Atto secondo. Nel mare del teatro, memoriale di Antonio Attisani copre un arco temporale dal 1966 al 1993, ed è riferito ad attività di alto livello professionale svolte da Attisani come autore, regista, organizzatore teatrale, direttore di Festival, editore, fino all’approdo in tempi recenti all’insegnamento universitario. Guidato sempre dall’amore per il teatro e da una competenza che dura nel tempo, l’autore del libro è un artista che non ha mai smesso d’interrogarsi e d’interrogare, il che gli ha consentito di acquisire una preziosa e variegata consapevolezza teorico-pratica.

Ancora minorenne s’iscrive all’esame di ammissione della Scuola di Arte Drammatica del Piccolo Teatro di Milano. Perché Milano e non Roma, dove impera Orazio Costa? Perché, a torto o a ragione, il Piccolo è considerato “il tempio della laicità teatrale e la fabbrica dei risultati artistici più eclatanti”. Nell’attesa degli esami, frequenta un corso di teatro con Eugenio D’Attoma del Piccolo Teatro della città di Bari; s’iscrive alla Federazione Giovanile Comunista e acquista “una vagonata” di libri degli Editori Riuniti: Tutto si mescola (il corsivo è mio). La formazione politica da giovane comunista e le prime caotiche letture dei libri comprati “a rate”.

<<Il Living Theatre arriva a Bari nell’anno 1966, suscitando scandalo per un nudo in scena e per il fatto che la Compagnia non ha un copione di riferimento>>. Ma con I Giganti <<fu come uno stordimento>>. I Giganti fecero restare i ragazzi migranti senza fiato, perché furono testimoni di una tragedia dalla quale gli attori uscirono assai male in quanto sembravano “quasi inutili”. <<Imparammo presto che uno dei temi più vitali >> – scrive Attisani – è <<quello della propria crisi, se non della propria morte>> (morte a ripetizione per rinascere: la frase è mia) – che voleva dire <<dell’interrogazione sul senso (significato e direzione) dell’arte scenica, specialmente in epoca di grandi cambiamenti>>. Quanti spettacoli, quanto lavoro critico, quante opinioni. E quanti sogni, “mescolati” alle delusioni! Nella stessa stagione teatrale, se per i Giganti vale la perfetta calibratura della poesia di scena, gli appunti dell’autore riferiti ai Lunatici di Luca Ronconi evidenziano, di contro, il “vuoto della scrittura scenica: ibrido e scoraggiante”, con l’impertinenza ironica della battuta finale ”di chi la colpa?”, appuntata al vestito come una spilla di ferro. E nel riferire la stroncatura di Roberto De Monticelli allo spettacolo Camicia di forza per Off Limits di Adamov, quanta umanità nel rilevare che, nonostante l’insuccesso, <<noi (attori)>>, dice ancora l’autore del libro, << eravamo assai contenti di farlo (lo spettacolo), e io mi ritrovai in preda a una sensazione strana, contraddittoria, essere a vent’anni apprezzato protagonista al Piccolo Teatro di Milano… Ero un ragazzo appagato e pieno di vita, ma anche confuso e tormentato>>. E poi le amicizie vere, “mescolate” ad alcuni conflitti personali, a fatti, eventi e avvenimenti politici come il sequestro di Moro, la rivendicazione “del “teatro come servizio pubblico”, l’autonomia della cultura dalla politica, “tema bruciante ancora oggi”.

Dopo l’uscita dal Piccolo, Attisani sposta la ricerca del lavoro a Roma, dove si ferma un paio di mesi, senza fortuna. Torna a Milano ed entra come socio della Cooperativa Gruppo della Rocca, che poteva sembrare una Compagnia tradizionale, ma che, invece, faceva sul serio nell’ambito della gestione cooperativistica, e della democrazia interna, creando le condizioni per una esperienza decisamente soddisfacente. L’idea di fondare una rivista di teatro, poi chiamata Scena, nacque – dal punto di vista temporale – dopo l’esperienza con il Gruppo della Rocca. Comportò una grande quantità di lavoro, problemi legati alle disponibilità finanziarie – nonostante la buona vendita di copie – ai contenuti degli articoli, ai collaboratori. Tutto si mescola (il corsivo è mio): anche l’attività editoriale con la direzione artistica del Festival di Santarcangelo, che sembrava potesse diventare una struttura pubblica di riferimento. Per l’uscita della rivista Scena, <<figure come Bernard Dort, Franca Angelini, Franco Quadri e Goffredo Fofi sono state molto importanti nell’accompagnarla e nel determinarne la fisionomia>>, anche se poi con Quadri ci fu uno strappo forte nei rapporti personali. Tutto si mescola è prassi abituale: soddisfazioni nelle relazioni verso l’esterno, facilità d’interlocuzione, buona nomea, prestigio personale, ma anche alcuni problemi nel coacervo delle diverse attività professionali d’intreccio.

Uno scossone si verificò anche con l’articolo di Lanfranco Binni che osò criticare il teatro politico di Dario Fo: i critici teatrali la presero piuttosto male, neanche fossero stati “poverelli indifesi”, mentre era vero il contrario: erano una vera e propria potenza e Scena una “ piccola istanza di etica culturale”. Da questo fatto Attisani ne trasse l’impressione che fosse, da qual momento in poi, “un esempio di ottuso estremismo”. In altre parole: <<non era possibile praticare un pluralismo ipercritico se non pagandolo in termini di rissa e di odio corporativo>>, fino a quando divenne operativa una legge secondo la quale <<il nemico si uccide non parlandone>>.

Penso che sia opportuno attraversare il capitolo del libro Un’altra scena, comunque, per comprendere quanto fosse complesso e articolato il lavoro per la rivista (prima bimestrale e poi mensile): in altre parole come fosse “una esperienza esaltante e al tempo stesso devastante”. Oppure effettuare una disamina del capitolo riguardante Il sessantotto dieci anni dopo, segnato oltre che dalla “svolta” dei trent’anni, dalla burrasca della separazione coniugale e della pubblicazione del pamphlet Teatro come differenza che trovò lucida proposizione nell’intervento di Maurizio Grande (Ivrea 1987); <<Un teatro, altro dal teatro, è il teatro della differenza, in cui l’artisticità si politicizza come singolarità della forma (e non come forma della singolarità) che rimette in questione il teatro nella sua originarietà politica; originarietà di un modo di fare teatro nella diversità non amministrata da strutture gestionali di protezione della differenza>>.

Forse l’evento più importante fu il convegno Le forze in campo, ideato assieme a Bartolucci e realizzato a San Geminiano di Modena un anno prima di quello d’Ivrea (1967), in cui si <<cominciò a dismettere la frenesia settaria e a guardare alla geografia del teatro italiano, con il suo incontro tra generazioni e tra talenti e tra poetiche le più diverse>>. Il convegno di Ivrea fu tuttavia un evento che contribuì a cambiare le cose e determinò la nascita del “Nuovo teatro”. Era il tempo in cui alle letture di libri e alla visione degli spettacoli si aprivano mondi meravigliosi e sconosciuti, con qualche sorpresa naturalmente, come nel caso del seminario di Lee Strasberg: <<Ho tenuto un diario>> – informa Attisani – <<di quel seminario. Non so se valga la pena di cercarlo>>. (Non ne vale la pena, la frase è mia). <<Quando l’atmosfera politica si fece “rovente” tutti tendevano a prendere posizione, ma i gruppi politici rivoluzionari avevano dirigenti autoritari e disgustosi: sostanzialmente “ridicoli, assurdi, minacciosi”>>.

La sintesi tra cultura e rivoluzione è data – per Attisani – da Bertolt Brecht, “suo autore di culto fino alla fine degli anni Settanta”, superato a seguito di una nuova lettura di Artaud. Quando si presentò l’occasione di fare un incontro con il Gruppo Artaud, con la finalità di fare autoformazione, erano i tempi in cui valeva lo slogan “poca teoria e molta concretezza”. <<Era il tempo in cui la scuola del Piccolo Teatro non convinceva più i giovani partecipanti con il modo di fare teatro e per il fatto che doveva diventare la nostra vita>>. Insomma per la generazione dei più giovani era importante trovare un’altra possibilità che “corrispondesse al bisogno di essere “autori” (dello spettacolo), e non docili strumenti nelle mani di un regista. Questa era la questione di fondamentale importanza: una questione ricorrente nel discorso sul fare teatro da parte di Attisani, il quale precisa con estrema chiarezza quanto sia giusto realizzare un’azione a partire da una situazione. <<Il fatto di pensare a un attore che non fosse una marionetta e fosse protagonista di un teatro che avesse un senso nel mondo contemporaneo, tra conflitti sanguinosi e bisogno di poesia, è alla base di tutte le contraddizioni e problemi che ho dovuto affrontare nella vita, non solo nella professione teatrale>>.

Attisani è convinto che Grotowski interpreti Stanislawskij “in modo più profondo e propulsivo” e, non ha la pretesa di trovare “la soluzione universale” e in fondo neppure quella personale: <<…mi sono rassegnato ad essere attivo nella contraddizione>>. Ne scaturisce la pratica per cui l’attore “non mette in scena i testi”, ma li mette in vita, come si è detto, e “li fa propri, li ri-poetizza nella propria contemporaneità”.

Molto utile, molto concreta ed esplicativa è la quantità/qualità delle chiose e dei frammenti di lavoro critico riferiti alle Compagnie, ai Festival, quotidiani, settimanali che il libro prende in considerazione, ponendosi come formidabile fonte d’informazione per studiosi e ricercatori. E suscita di certo simpatia il frammento della recensione di Arturo Lazzari quando dice che <<la prova più convincente e sorprendente allo stesso tempo, è del giovane Antonio Attisani, che di punto in bianco si è trovato ad affrontare il ruolo di Jim. Da una particina secondarissima nell’Isola purpurea è passato qui al protagonista>>.

Al momento del congedo dalla prima Ista, l’autore, su richiesta di Eugenio Barba, scrive una lettera (fino ad oggi “rimasta in privato“) in cui l’autore dice di non aver <<imparato cose che si possono ripetere: il senso non può essere sintetizzato per la mia scarsa conoscenza degli attori orientali, e poi per aver guardato più che provato>>. In altre parole, per “dare statuto scientifico a qualcosa che il primitivo ha anticipato” è necessario “il confronto corpo a corpo”.

Attisani ritiene che per il fatto di essersi occupato con grande passione e impegno di politiche culturali, ha prodotto il risultato di vedere sottovalutato l’aspetto teorico del suo lavoro. Non so se questo sia vero. Una cosa è certa: Attisani ci ha parlato del passato, ma un passato vivo, non inerte, foriero di possibili sviluppi, non di bilanci. Accanto alle conquiste e ai successi ci sono state anche alcune frustrazioni e alcune velleità. Di certo, però, Attisani è un artista coraggioso, è un uomo che ha sentito il bisogno di sognare.

E per infinire (il conio è mio) desidero riportare una riflessione che mi sembra, tra le tante, particolarmente bella, e significativa: <<… devo confessare che è una fortuna per me essere lontano dal mio archivio, perché i pochi documenti di cui dispongo a Torino, appena adocchiati, mi attirano in un vortice di memoria che vorrebbe reagire con un resoconto di molte vicende delle quali prima conservavo una vaga sensazione. La memoria sfocata ha la consistenze del presente, mentre la memoria attivata ha la durezza e la prepotenza della storia. Conteso tra le due, non mi resta che procedere nell’incoerenza>>.

Antonio Attisani, Atto secondo. Nel mare del teatro (1966-1993), Celid Edizioni Torino, 2018, pp. 272, euro 18,00.