Quando i migranti eravamo noi: cinema e inchiesta nel libro di Stefania Carpiceci di Katia Ippaso

C’è tutto un mondo che si muove controvento, opponendosi alla tendenza dominante assestata sul respiro breve, la polemica, il formato tweet che pretende di spacciare una sbiadita frase di poche sillabe mal scritte come posizione politica. Bene, di quell’altro mondo intellettualmente fertile, analitico, attento all’antropologia del gesto artistico non allineato, ci sono tracce dappertutto, ma bisogna essere fortunati per coglierle, perché questi reperti si muovono spesso sott’acqua, estranei al dibattito mainstream. Uno di questi preziosi documenti della resistenza del pensiero umanistico (parola ormai scandalosa!) ha una copertina di un vivissimo rosa shocking, 256 poderose di scrittura chiara, plasticamente ritagliata sulle relazioni tra cinema, cronaca e canto popolare, 30 pagine di bibliografia, filmografia e sitografia, e 12 pagine di immagini fotografiche. Il libro è stato scritto da Stefania Carpiceci, stimata ricercatrice specializzata in storia e teoria del cinema (insegna all’Università per Stranieri di Siena), e si intitola “Amara terra mia/io vado via”. Cinema italiano e canti della grande migrazione del Novecento (Edizioni ETS, collana InterLinguistica, 27,00 euro).  Leggerlo è un’esperienza che ci collega alle ragioni profonde per cui facciamo questo mestiere. La capacità di analisi, la cura compositiva di Stefania Carpiceci ci ricorda come, prima dell’avvento della serialità televisiva in streaming (che ha fatto diventare fenomeno di massa e consumo acritico ogni relazione possibile tra autore e pubblico), esisteva uno scambio tra la creazione filmica, il “reale” di cui registi, sceneggiatori e attori andavano leggendo le violente ingiustizie, e lo spettatore, che di quel mondo faceva ancora parte come corpo civile e analista scrupoloso.
Con la sapienza di chi è abituato a fare ricerca in biblioteca, andando ad approfondire fonti e citazioni, e l’invariata capacità di stupirsi ad ogni scoperta, Carpiceci ricostruisce il fitto tessuto di corrispondenze tra i fenomeni migratori degli italiani nel Novecento e alcune opere filmiche dei nostri grandi autori, dando anche il giusto risalto ai canti e alle musiche spesso usate in senso intradiegetico (e questa è una grande novità, perché si tende invece alla specializzazione: che gli studiosi di cinema parlino di film e gli etnomusicologi si interessino alle loro cose!). Attraverso la seria, e appassionata, analisi di sette film – Il cammino della speranza di Pietro Germi (1950), I magliari di Francesco Rosi (1959), Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti (1960), Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo (1971), Pane e cioccolata di Franco Brusati (1974), Così ridevano di Gianni Amelio (1998) e Nuovomondo di Emanuele Crialese (2006) -, l’autrice non solo si addentra nelle questioni di poetica e di stile, ma tesse una minuziosa partitura critica che fa suonare insieme le varie parti: il documento giornalistico, la rielaborazione del dato cronachistico o letterario in sceneggiatura, la lettura della performance attoriale e, infine, la trascrizione del materiale musicale usato come elemento testuale. Ne emerge un icastico affresco multisensoriale che riattiva la nostra fragile memoria, non solo grazie alla ricchezza di materiali d’inchiesta, ma anche in virtù della capacità che l’autrice ha di testimoniare, come fosse lì presente in ogni set, l’ostinata fabbricazione di un’opera che vuole sintonizzarsi con la storia contemporanea, indagando quei corpi sacrificali lasciati a varie riprese sulla strada: corpi che nessun artista degno di nota, fino agli anni Novanta, si sognava di ignorare e che oggi sono usati, nel migliore dei casi, come appoggio retorico.
Sono quattro le ondate migratorie prese in esame: «una prima fase dal 1876 al 1900, durante la quale sono soprattutto gli emigranti settentrionali a prediligere come meta le Americhe… Una seconda periodizzazione dai primi del Novecento alla Grande Guerra, che interessa soprattutto i contadini meridionali massicciamente approdati negli States, salvo poi rimpatriare, per andare al fronte… Una terza fase in coincidenza del periodo tra le due guerre e l’avvento del fascismo che, contrario al fenomeno migratorio, rimuove l’immagine dei connazionali straccioni che attraversano l’oceano per cercare fortuna, sostituendola con quella di italiani all’estero: ideologismo che stigmatizza la figura dell’emigrante e propaganda una patria falsamente felice… Infine la quarta fase, quella del secondo dopoguerra fino a inoltrati anni Settanta-Ottanta, durante la quale gli italiani ambiscono a nuove più ravvicinate mete del vecchio continente europeo o, dentro i confini nazionali, del nostro Settentrione». A ciascuna di queste ondate si collegano una o più opere filmiche, che vengono studiate attraverso i dialoghi, le testimonianze critiche, l’analisi filologica del singolo fotogramma e la separazione delle lingue usate, tra dialetti, suoni, modi di dire, linguaggi silenziosi. Costante è la preoccupazione dello storico di fornire dati e documenti che costellano i diversi viaggi all’inferno dei nostri nonni e dei nostri padri. Basterebbe leggere il capitolo dedicato al limbo di Ellis Island, prolungamento delle navi («ospedali galleggianti, carrette del mare») su cui i nostri antenati viaggiavano in cerca dell’Eldorado, le regole da campo di internamento che vigevano all’interno dell’Isola delle lacrime, attiva a New York dal 1892 al 1954, per riattivare la memoria antropologica del nostro esilio e del nostro calvario, non così lontano nel tempo. L’intento complessivo del libro è, infatti, quello di portare il lettore, senza nessuna forzatura ideologica, attraverso la scomposizione e ricomposizione pacata (e insieme vibrante) dei vari livelli testuali, alla consapevolezza dell’impermanenza di ogni situazione storica, soggetta, come in tutte le storie individuali, ad ascesa e caduta: «Se proviamo, come qui abbiamo cercato di fare, a osservare e ad ascoltare quel che il cinema italiano e i canti della grande migrazione del Novecento riescono, in alcuni casi, a farci vedere e udire attraverso esperienze che, senza rimozione né negazione, senza timore di ricordare, ci possiamo rendere un po’ più consapevoli di quel che siamo e di come la nostra identità nazionale abbia anch’essa attraversato acque torbide e tracciato percorsi di un lungo, periglioso viaggio non dissimile da quello che compiono oggi i tanti immigrati d’Italia, d’Europa e del mondo».

Stefania Carpiceci, “Amara terra mia/io vado via”. Cinema italiano e canti della grande migrazione del Novecento, Edizioni ETS, Pisa,  2020, pp. 300, euro 27,00.