ESERCIZI DI MEMORIA > Contagio a cura di Emanuela Bauco, Tiziano Di Muzio, Marta Marinelli e Andrea Scappa

Il viaggio di Esercizi di memoria prosegue con un altro uomo di teatro che, partendo dal Sud America, ha portato la sua arte attraverso i continenti. Dopo aver incontrato, nella prima parte di questo secondo ciclo, l’attore brasiliano Cacá Carvalho, è César Brie, originario dell’Argentina, a raccontarsi. Brie, attore, drammaturgo, regista e poeta, in questo episodio dedicato al Contagio, torna alla sua adolescenza fatta di letture, poesie, incandescenze politiche e all’incrocio con il teatro e con gli spettacoli che gli hanno cambiato la testa.

Borges e Kantor

Mio padre faceva il libraio.
Da piccolo lo aiutavo a vendere i libri e, spesso, chiedevo alle mamme che volevano un libro per il figlio: «Suo figlio legge o non legge?». «Non legge», rispose una di loro. Ed io: «Quanti anni ha?».
«Quattordici», mi disse. «Allora prenda questo, che è metà libro e metà fumetto, così almeno guarda le figurine». «Grazie, ma tu quanti anni hai?», mi chiese. «Undici signora, ma io leggo».
Leggevo tutto…
Poi ho incontrato Borges.
Era già venuto due volte a Dolores, il mio paesino a duecento chilometri da Buenos Aires, a tenere delle conferenze. Lo avevo intervistato per la rivista che facevamo a scuola quando avevo dodici anni. Borges aveva dichiarato che García Lorca era un poeta minore ed io ero inorridito, mia madre ce lo leggeva sempre.
Un anno dopo la morte di mio padre, mia madre mi ha suggerito: «Vai a leggergli le tue poesie», perché dai 14 anni scrivevo sempre, ho scritto per tutta la vita in realtà.
«A chi?» «A Borges». E io: «No no». Allora chiamai la biblioteca…
Lui dedicava un pomeriggio alla settimana ai poeti che andavano a leggergli le loro opere. Ti davano un’ora di tempo.  Sono andato lì col mio quaderno di poesie e ho cominciato…
Lui seduto, il volto verso di me e gli occhi in alto, perché era cieco, dice: «Cominci!», dandomi del lei. «Cominci signor Brie». Allora gli leggo una poesia, poi un’altra… Erano poesie che avevo scritto tra i quattordici e i sedici anni. Ad un certo punto, quando finisco di leggerne una, lui mi dice: «Me la può ripetere?» La ripeto e mi dice: «Me la legge ancora?».
E gliel’ho riletta di nuovo…
Poi mi dice: «Un’altra» e ne leggo un’altra. E così via.
Alla fine, mi dice: «Mi legga di nuovo quella poesia sulle stelle». Era una poesia che avevo scritto a quindici anni al mio primo amore.
Gliela leggo e poi lui bisbiglia: «Posso confessarle una cosa?». «Mi dica», gli dissi.
«Mi sarebbe piaciuto scriverla». Mi ha detto così.
Io allora non compresi cosa potesse significare che Borges mi dicesse una cosa del genere. E poi aggiunse: «Continui a produrre signor Brie, e tra un anno o due venga a trovarmi, la aiuterò».
Mia madre poi gli telefonò…
Almeno questo mi disse lei. Non so se questo racconto è vero, non ne sono stato testimone, sono solo le parole di mia madre… Borges disse: «Guardi signora, vengono a leggere le loro opere tantissime persone a cui sono obbligato a dire che la letteratura è troppo affollata, che dovrebbero fare un altro mestiere. E invece questo Brie», mi trattava come fossi un adulto, non un ragazzino, «è un poeta. Oggi ho ascoltato un poeta».
Era il ’70, avevo sedici anni. Non ho mai più cercato Borges, e di questo mi pento.
Poi sono diventato un attivista politico. Ho cominciato con il teatro nel ’71, e il teatro mi salvò, per fortuna, dalla politica. Ero come tanti giovani, un idealista, e credevo che il mondo andasse cambiato: mi occupavo di lotta politica in un paese dove quelli come me venivano regolarmente uccisi.
Il teatro è stato il luogo dove ho potuto continuare a scrivere poesia, non più solo con le parole, ma con il corpo. Perché il mio dramma era questo: una timidezza siderale.
Tutto il fuoco era nella scrittura, ma nella vita ero bloccato, terribilmente represso, timido.
Il teatro mi ha costretto a usare il corpo, la voce, la presenza. È stato un altro modo per continuare a scrivere, non solo con le parole, ma col corpo, la voce, le immagini. L’ho capito da poco: in realtà ho continuato a scrivere poesia in forma diversa. Nel teatro ho trovato una dimensione nella quale, insieme all’anima della poesia, c’era il corpo.

César in una sua foto da bambino a Dolores, in Argentina.

A me la testa è cambiata quando ho visto Kantor.
Ho avuto una scossa elettrica quando ho assistito a La classe morta.
Quando ho visto Kantor, ho capito che stavo facendo tanti errori e ho cambiato registro, non cercando di imitarlo – perché era un teatro che non avrei mai fatto – ma capendo molte cose. Kantor ha mutato la mia visione drammaturgica ed estetica.
Anche Ariane Mnouchkine, Peter Brook, Eugenio Barba, nel momento in cui li ho visti, sono stati importanti.
Però, forse, i due grandi artisti che più mi hanno sconvolto sono stati Kantor e Pina Bausch. Pina Bausch per il concetto di coro. L’idea del coro che c’è dentro il suo lavoro – magari è soltanto una mia interpretazione – è stata per me illuminante: la possibilità che un’azione intima sia fatta da un gruppo. Come far diventare plurale l’intimo, come il politico può essere l’intimo che diventa sociale, come la tua solitudine non è solo la tua solitudine, ma la nostra solitudine e quindi tutto il piccolo, tutto il banale, il quotidiano diventa qualcosa che appartiene a tutti, e curiosamente, se lo vediamo attraverso l’intimo, lo espandiamo. E questa è anche la lezione credo di Čechov per me.
Ho visto La classe morta per la prima volta al CRT, al salone in via Dini ad Abbiategrasso e, poi, l’ho rivisto al Teatro dell’Arte. Mi ricordo che non avevo soldi per andare a vederlo. Lì trovavo sempre degli amici a cui dicevo: «Dammi un pezzetto del tuo biglietto». E con quel pezzetto entravo, lo mostravo e credevano che avessi pagato. Così ho visto Kantor quattro volte, a sbafo, senza pagare. Alla fine, ho visto cinque volte La classe morta.
La prima volta mi ha colpito lui, Kantor, questa specie di demiurgo che in scena indica, guarda, abbassa o alza le dita. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso, mi sembrava un folle. L’emozione più grande, però, l’ho avuta alla terza, quarta volta, nel momento in cui entravano tutti con le marionette di se stessi bambini sulla schiena. Ho avuto una reazione fisica, ho cominciato a tremare e dovevo trattenermi con le braccia.
Non era pianto, non era solo emozione, ma qualcosa di fisico. Come se qualcuno mi stesse scuotendo come il vento scuote un albero. Ogni volta scoprivo qualcosa, un dettaglio, un altro, e un altro ancora…