Se trentacinque sembran pochi: “Don Giovanni” capolavoro di Lucio Battisti di Paolo Ruffini

Diciamo così, tanto per dire, sappiamo benissimo che esistono opere siano esse trasfigurazioni sceniche o piombanti scritture o ancora fatti d’arte o, infine, tanto per non farci mancare niente, album della cosiddetta musica leggera che traghettano quel prima in un dopo smemorando e reinventando il senso del fare. Allora attizzando l’ingegno, proprio in questi giorni approssimati al sanremese festival della discanzone della nostra italietta (dove qua e là ogni tanto compare una perlina piccolina) e sparato a tutta pompa sulla tivù di bandiera e la radio apparentemente recalcitrante che rincorre l’altra (di radio) nel posizionamento contemporaneo cercando di coglierne l’humus di quell’intellighenzia comodamente rivoluzionaria lì assiepata a pontificare; ecco, questo festivalino ch’è lo “specchio riflesso” direbbe qualcuno dell’”estro triste” (direbbe sempre lo stesso) di una magra latenza reazionaria tra una politica stonata e genericamente distonica e gli artisti, questi sconosciuti (che coniugano, così con disinvolto manicheismo in salsa post di qualche cosa e di qualcuno, lontananze dal vero a sbrodolamenti retorici); insomma in questo vuoto pneumatico dello straparlare delle stesse minestre, e l’abbiamo detto adesso, perché non ricordarci che era di trentacinque anni fa l’uscita di un gesto estremo nella musica popolare, c’est-à-dire quel capolavoro del duo Battisti/Panella Don Giovanni? L’autore-cantante spaesato da Poggio Bustone arrivava all’apice di una carriera unica e superba, s’è poco si provi a contraddirlo, dopo i ritornanti di una fratellanza stoica con Mogol, quella perfezione disarmonica e dis-poetica ma dichiaratamente canzone invero rarefatta con una voce architrave sonora, timbrica aggiuntiva alla strumentazione mai oltraggiosa però della tessitura, anzi, sua eco, per certi versi esperienze quasi esoteriche nello spazio del qui quotidiano, metafisico anche quando spinge il carrello al supermercato o nel refrain di una chitarra sdrucciola in Neanche un minuto di non amore reinventando un cinemascope ondulante, conturbante. E Anima latina? E Dove arriva quel cespuglio nella costruzione di un amore ante litteram da immaginare en plein air deragliato da sessioni che, inutile negarlo, hanno dietro l’angolo il jazz che attizzava la sua lucidità? E poi l’epopea involta di Geoff Westely che trasformava Lucio Battisti in assoluto compatto e trasversale sistema di orecchiabili jungle, intonanti arditi internazionalmente compatibili, assolutamente fuori schema. Ma Battisti è un musicista alla ricerca, un segugio che annusa l’aria prima che cambi il vento, viaggiare, sì viaggiare senza fermasi mai. Che fare dopo tanto fare, si sarà chiesto. Di struscio separandosi dal sodale paroliere prova una strada nell’elettronica con E già, una specie di manifesto di quello che non è più e non ancora quello che sarà, di fatto un disco “non opportuno” eppure successone. Arriva, si diceva, nel 1986 a marzo con tutta la sua potenza Don Giovanni impreparati com’eravamo mentre si deglutiva la new-wave d’oltre Manica e ci si sperticava ad applaudire la leggerezza, per omaggiare il Kundera d’annata, chiarendo da subito lo spostamento esistenziale di un lavoro ch’è fondativo e vivificante, eterodosso e classico; artista non sono io diceva ma la santità lo sosteneva perché si è santi nella non esistenza, nell’immaterialità visiva, nell’inganno della comunicazione, nell’overdose della consapevolezza di una certa sottrazione erotica ai giochini di una vita da stellina sdrucciola nel paesotto del bel canto resuscitato dai ferri e dai fuochi della politica. Ormai scantonata l’era della guerra con smagata imprecisione la voce cantava, a dire il vero lo strumento vocale ”segnava” le parole di un discorso amoroso iper ellittico: che vita ha fatto a immaginarsela, a aspettarsela convinto che la vita c’è, vittime fa l’ottima idea. E il chiasma verbale e sonoro si fa cristallino, ancor più fantasmatico, iperbolico. La puntina si piazza sul vinile e apre senza preavviso una sinfonica ouverture d’altri tempi, Le cose che pensano sa di Foucault e ad annusarlo bene è un brano infinito sull’oggettività di un amore che poco più avanti nei solchi consanguinei per rabdomanti distrofie creative si strazia in quell’intronata routine del cantar leggero di un personaggio d’Opera, Giovannino lui l’inganno delle parole assolate nella messa in scena di Panella e maschera da Commedia dell’arte. Tutto il disco si espande e si contrae in quel misuratissimo equilibrio fra sintetico agli albori e substrato permeabile della tattilità del suono, della visibilità del suono, dove le parole sopravanzano e si autoingoiano. Tra pezzi ballabili e sinuose rievocazioni orchestrali deflagra e diviene manifesta l’assenza, la proverbiale, e Don Giovanni come un menir d’artigianato del futuro ci catapulta nella metafora della canzone, dopo di lui il diluvio, assenza così ingombrante. Non penso quindi tu sei, questo il lascito allo straripante frastuono canoro dei tanti.