Tra arte e attivismo: la pratica curatoriale secondo Piersandra Di Matteo Intervista di Renata Savo

È una notizia che fa piacere apprendere, quella della nomina di Piersandra Di Matteo a direttrice artistica di Short Theatre, rinomato e apprezzato festival di arti performative capitolino ideato e diretto sin dalla sua prima edizione da Fabrizio Arcuri, cui si è poi aggiunta Francesca Corona nella co-direzione. Piersandra Di Matteo ricoprirà l’incarico nel triennio 2022-2024, curando l’edizione del 2021 in dialogo con Francesca Corona. È studiosa, dramaturg, curatrice, figura dinamica e pienamente contemporanea, «capace di tenere insieme teoria e pratica, estetica e istanze politiche», come si legge sulla nota stampa di AREA06, l’associazione culturale che nel 2006 ha fondato il festival, diventato con il tempo uno dei più importanti appuntamenti internazionali con le performing arts. Abbiamo raggiunto Piersandra Di Matteo al telefono per farci raccontare il suo punto di vista sul periodo attuale che il settore delle arti performative sta vivendo, e di illustrarci la sua visione della pratica curatoriale, che negli ultimi anni si è sempre più incentrata sul rapporto tra arte e attivismo, entrambi fortemente limitati a causa della pandemia. Per quanto riguarda l’attivismo, a cavallo tra il 2019 e i 2020 abbiamo assistito a una rinnovata fiducia nella forza motrice della moltitudine: dal fenomeno Greta Thunberg e i suoi #FridaysForFuture, le manifestazioni urbane per il clima, al movimento delle “sardine” il cui nome rimanda proprio all’estrema prossimità fisica dei manifestanti. Nel 2020, il brutale assassinio di George Floyd per mano di un agente di polizia ha fatto riemergere dalle strade il grido del Black Lives Matter. Se qualcosa possiamo ancora dire dell’attivismo politico, dell’arte in relazione a esso, invece, abbiamo perso quasi totalmente le tracce. Anche di questo abbiamo parlato con Piersandra Di Matteo. 

L’«alleanza dei corpi», per dirla alla Judith Butler, la presenza della folla, sono diventate configurazioni pericolose e illecite, e questo ha reso complicato l’espressione di idee politiche attraverso la compresenza di corpi. In che modo l’arte, e in particolare le arti performative, è riuscita – “se” ci è riuscita – a intersecare l’attivismo politico dall’inizio della pandemia? 

La pandemia ci sta chiamando a vivere trasformazioni radicali. Ha ragione Paul B. Preciado a parlare di un vero e proprio “cambio di paradigma”. I corpi si sono scoperti inceppati, frenati dall’incertezza, disinnescati dal confinamento, intorpiditi dalla colpevolizzazione individualizzata, dai controlli biomedici, dall’assillo del distanziamento sociale, da tutta una serie di limitazioni che impediscono proprio la performatività di “un popolo in azione”, dell’adunanza, per dirla – come suggerisci – con Butler. Se da un lato il virus ci ha messo di fronte al fatto che tutti condividiamo l’eguale rischio di ammalarci, al contrario la macchina della disuguaglianza radicale si può annidare nella gestione dell’emergenza. Non si tratta di agire nel presente per un ritorno alla normalità, “porqué la normalidad era el problema” – hanno tuonato da Santiago del Cile le compagne del collettivo artistico Delight Lab – ma è essenziale fare di questa mutazione epocale un’occasione. È in questa direzione che le pratiche performative rappresentano lo spazio in cui mettere al lavoro nuove possibili forme di relazione tra i corpi, relazioni inedite, non ancora sperimentate o non ancora pensate.
Se le arti performative sono lo spazio in cui è possibile instaurare poetiche della relazione, rinnovare i nessi collettivi non può che riguardare lo spazio “tra” i corpi e lo spazio, tra i corpi e la natura e tra i corpi e i corpi, di qualsiasi natura essi siano. Il teatro è allora l’avamposto da cui promuovere una reinvenzione collettiva della collettività. La sfida è lavorare per combattere la contrazione dello spazio pubblico, investire sulla trama delle città, nelle piazze, nei parchi, nelle strade, in un rinnovato patto tra ambiente e abitanti. Credo necessario rinsaldare intese tra diverse realtà del territorio urbano, rapporti non forzatamente produttivi o vincolati da parametri numerici ma convergenze concepite come l’allenamento per nuove alleanze. 

Hai lavorato come dramaturg per artisti di rilievo internazionale e dalle poetiche molto distanti. Dalla visionarietà di Romeo Castellucci al, per così dire, “reality trend”di Lola Arias. Negli ultimi venti anni il docu-fiction, il reality, che prendono in prestito le logiche dei media, hanno avuto un grande successo in televisione, a teatro, al cinema. Credi che dopo la pandemia, come dopo altre tragedie mondiali, l’arte subirà una sostanziale inversione di rotta e prevarrà il desiderio di evasione e di sconfinamento dal reale? 

Dal dialogo che nutro con gli artisti – tratto che caratterizza le mie pratiche – percepisco un grande fermento. Sento il fuoco che cova sotto la cenere. Non so dire se le declinazioni estetiche vedranno prevalere istanze immaginifiche, visionarie o evasive, oppure scritture sceniche che prediligono l’adesione alla realtà (d’altra parte le “visione della realtà” proposte da quest’ultimo tipo di teatro si assumono quasi sempre la responsabilità di lavorare sul confine scivoloso tra finzione ed esistente). Credo che potranno entrambe trovare delle possibilità di manifestazione, sicuramente attraversate da un sentire rinnovato: è evidente che quello che abbiamo vissuto e stiamo vivendo non potrà non produrre dei mutamenti, sono già in fieri.

E come nuova direttrice artistica di Short Theatre per il triennio 2022-2024 quanto sono nitide, in questo momento storico (in cui immaginiamo il lavoro di direzione artistica molto più complesso del solito), le tue idee sulla nuova piega che potrà prendere la vision del festival? 

La nitidezza non è necessariamente un valore. Faccio mio il pensiero di Édouard Glissant quando rivendica il “diritto all’opacità”, quando ci invita a cedere le armi alla pretesa totalizzante di una comprensione piena, attraversata dai raggi X di una conoscenza fondata sul voler afferrare tutto.
In questi anni, nella curatela di Atlas of Transitions Biennale a Bologna, ho fatto l’esperienza di saper/poter accogliere ciò che è sfuocato, dai confini non definiti e prestabiliti, ed è lì che si apre la possibilità a declinazioni operative imprendibili. Così mi piace pensare la pratica curatoriale, non come un gesto autoriale muscolare ma come un processo, che si sa fare carico delle vulnerabilità, di diverse temporalità e spazialità dettate da dinamiche di incontro, dalle pratiche instaurate con il gruppo di lavoro. In questa direzione è intesa la collaborazione con Francesca Corona e con il team di Short Theatre, in questo prezioso anno di vicinanza e avvicendamento. Con Francesca condivido questa stessa idea di processualità, una modalità compositiva che si viene definendo attraverso il dialogo stretto e franco con gli artisti, le diverse realtà che operano a Roma nel sociale, le alleanze profonde con chi opera già a livello culturale nella città.
Nutro senz’altro alcune tensioni di fondo: il rapporto con la città e le stratificazioni della vita urbana, la possibilità di abbracciare le sue molteplici manifestazioni attraverso i linguaggi delle arti performative, pensare il festival come l’emersione temporanea di una euforia che si è tessuta attraverso un lavoro quotidiano. Un’altra è rivolta ai linguaggi artistici dotati di una propria radicalità di segno, di discorso, di pronuncia. Dentro queste tensioni mi piace aprirmi all’ascolto di quello che non sono ancora riuscita a pensare. 

Quali saranno, quindi, gli elementi di continuità con la precedente co-direzione? Ci saranno delle new entry nel gruppo di lavoro? 

Non penso la curatela come un gesto affermativo, ma come l’occasione per riflettere, ogni volta, sul proprio rapporto attuale con il potere, di qualunque natura esso sia. Mi piace pensarla come una forma di ridistribuzione di intonazioni e accenti singolari composti in una forma collettiva, in questo senso ciò che il gruppo di lavoro di AREA06/Short Theatre ha saputo costruire con Francesca Corona in questi anni è straordinario. Ho avuto modo già di fare degli incontri focalizzati su alcuni progetti specifici: soprattutto per questo anno di avvicendamento, di conoscenza, di prossimità da collaudare, sono entusiasta di poter lavorare con il gruppo di lavoro esistente.