Nel doppio del reale: video-drammaturgia d’autore di Filippa Ilardo

“A me stesso” di Rosario Palazzolo. Con Silvio Laviano. Foto di Giovanna Mangiù.

Fra tutte le cose di cui stiamo imparando a fare a meno in questa emergenza pandemica, il teatro è una di queste. E sono momenti in cui abbiamo paura di chiederci se davvero il teatro sia utile, essenziale, necessario perché troppo forte è il timore che la risposta sia no. Che si possa insomma comprendere che si vive lo stesso, senza il teatro.
Attorno a questo ragionamento, provocatorio e al tempo stesso imprescindibile, si sviluppa Avanti Veloce – Della necessità (o dell’inutilità?) del teatro, progetto ideato da Silvio Laviano, prodotto dal Teatro Stabile di Catania: cinque monologhi scritti da cinque autori, le migliori penne della drammaturgia siciliana contemporanea, e interpretati da altrettanti attori.
Ambientati e girati dentro il teatro, ma mai in palcoscenico, i prodotti audiovisivi, curati da Giovanna Mangiù, sono stati poi diffusi su youtube.
Un progetto che mira a reinventare in  modo intelligente una lingua, una possibile forma artistica, una ricerca stilistica alternativa alla necessità di reagire alla chiusura dei teatri, provando a far dialogare linguaggio audiovisivo e verbum teatrale.
Dietro le quinte, tra i camerini, fra magazzini polverosi, nella sala vuota, in mezzo alle tende del sipario: anche se il palcoscenico è vuoto, un teatro è sempre uno spazio in cui si rappresentano frammenti della vita umana, in cui guardare il riflesso del mondo, della vita, di se stessi, in cui cercarsi e farsi domande.
Nel monologo di Rosario Palazzolo, A me stesso, Silvio Laviano, viene avanti verso la macchina da presa, ponendosi degli interrogativi, rispondendosi come se fosse altro da sé. Siamo nel confine tra la quinta e il palco, e un uomo, solo con se stesso, si chiede su cosa sia in grado di fare per il teatro. Si spingerebbe fino a morire dice l’altro, ma il punto è spingersi fino a vivere. Perché non si può morire per il teatro, semmai si può vivere, vivere davvero, senza sviare, senza eludere la vita, senza la pretesa di non poter fallire. Perché per vivere bisogna essere disposti al fallimento, per il teatro bisogna essere disposti ad accogliere il fallimento. Il teatro è quell’interrogativo a margine dell’esistenza, aperto sulla vita e sulla morte, che solleva i confini e le frontiere, ci fa apparire nel mondo e ci fa cogliere le possibili contraddizioni, le impossibili congruenze.

“Lo specchio” di Rosario Lisma. Con Barbara Giordano. Foto di Giovanna Mangiù.

Ne Lo specchio di Rosario Lisma, una maschera di sala del teatro, Barbara Giordano, ha le chiavi ed entra, indossa la sua divisa, ma hanno tolto tutti gli specchi e la sala è vuota. Dialoga con gli spettatori, che però sono i personaggi classici delle opere teatrali. Lo spazio fisico, reale, comune ad attori e spettatori si configura come spazio separato,  che si auto-specchia, che mette in scena la finzione e la propria funzione, rendendola figura, metafora di ciò che trascende la contingenza del mondo.
Non c’è teatro se non in una condizione di reciproca influenza dentro l’esperienza, di condivisione della stessa di uno spazio e di un tempo.
Alessandra Barbagallo in Màttula di Luana Rondinelli guarda il teatro dal punto di vista di un batuffolo di polvere, ma tutto in teatro è magia, anche la polvere.
Stavolta però la scena è vuota, compare la scritta “Annullato”. Solo un’attrice entra sul palco, si sdraia sul palco, piange.

“Buio” di Tino Caspanello. Con Egle Doria. Foto di Giovanna Mangiù.

Il teatro come spazio del raddoppiamento, spazio-limite fuori dal continuum dell’esperienza. In Buio di Tino Caspanello, una donna, Egle Doria, in un momento di black out esistenziale in cui è sopraffatta da grovigli di pensieri, comincia a vedersi dal di fuori, si percepisce come estranea. In questo sdoppiamento esce, corre, dove si trova? Nell’entrata di servizio di un teatro, basta scostare una quinta ed entrare. Stare davanti al buio-vuoto come davanti a se stessi: nel momento stesso in cui avverte di vivere, nel momento in cui ci si interroga sulla presenza, nel momento in cui abbiamo bisogno di dare senso all’esperienza umana (alla parabola della vita e della morte, quel trovarsi in un luogo senza saperne il perché, cosa c’è prima, cosa c’è dopo, cosa c’è fuori), in quel momento è necessario il teatro.

“Le sette forature” di Lina Prosa. Con Giovanni Arezzo. Foto di Giovanna Mangiù.

Le sette forature di Lina Prosa, interpretato da Giovanni Arezzo, è un testo oscuro, in cui il ritmo è parte integrante della significazione. Un uomo che pedala, una ruota sette volte forata. Quali le cause delle forature? Il caso o la volontà umana, la possibilità e le coincidenze ineffabili del fato?
Non è più possibile raggiungere la scena, per l’«affannato portatore di messaggi che creano il destino?». Non è più possibile «cantare l’orribile canto degli eventi?». E se il teatro non fosse pronto? Se le sette forature non fossero servite a nulla? Bruciano nel corpo sentimenti umani intramontabili nello spazio del teatro, ma gli uomini imprigionati nella loro costituzione non sono più in grado di guardare fuori dalla prigione del sé. Siamo contingenza che cerca un senso, che cerca il senso.
Tutto è gioco di luci ed ombre, questo sembrano volerci dire gli autori dei cinque splendidi monologhi di un teatro impossibile: il dispiegarsi del mondo, lo schiudersi dell’uno e dell’altro – con l’altro – nella reciprocità e nella coincidenza di occhio visto e vedente, questo è il teatro, questo prolungamento del reale, questo doppio di cui non potremo mai fare a meno. Sia di quello possibile che di quello impossibile.

Avanti Veloce – Della necessità (o dell’inutilità?) del teatro

A me stesso
di Rosario Palazzolo, con Silvio Laviano

Lo specchio
di Rosario Lisma, con Barbara Giordano

Màttula – un batuffolo di polvere a teatro
di Luana Rondinelli, con Alessandra Barbagallo

Buio
di Tino Caspanello, con Egle Doria

Le sette forature
di Lina Prosa, con Giovanni Arezzo

direzione creativa Silvio Laviano
director ed editing Giovanna Mangiù
luci Gaetano La Mela
direttore di scena Armando Sciuto
consulenza scene e costumi Vincenzo La Mendola.