L’île du rêve, una Butterfly maori in prima mondiale di Carlo Lei

Provate a leggere i resoconti di viaggio di Pierre Loti, specialmente se vi interessano questioni post-coloniali. Scoprirete che se non vi è scampo per la donna esotica, destinata a bruciarsi al fuoco bianco dell’uomo occidentale, così anche la sua terra non può fare a meno di rintanarsi spontaneamente nelle sue protettive mani. Con quei libri, al tempo contrapposti alle coeve tranche de vie zoliane, Louis Marie Julien Viaud (1850-1923), vero nome di Loti, guadagnò enorme successo: innumerevoli ristampe, riduzioni per il teatro lirico e un posto all’Académie française.
Madame Chrysanthème, ad esempio, già intonata da André Messager nel 1893, fu uno degli ingredienti con cui Illica e Giacosa lavorarono la versione teatrale di Madame Butterfly di John Luther Long per confezionare il capolavoro pucciniano. Le mariage de Loti, sorta di auto-fiction ante litteram, dopo aver catturato l’attenzione di Léo Delibes, che ne trasse Lakmé, fu l’argomento dell’opera d’esordio di un allievo di Jules Massenet, Reynaldo Hahn. Il giovane, venezuelano di nascita ma più parigino dei parigini per squisita cultura e frequentazioni, decide appena diciassettenne di intonare quella trama polinesiana, affascinato forse più che dai contenuti dallo stile del romanzo – tanto da dichiarare di compararlo, in un inqualificabile abbaglio, ai Dolori goethiani, musicati peraltro dal suo maestro. «La comparaison est une forme admissible de la pensée», quasi si giustifica.
La nave militare Rendeer è in rada presso Papeete, e vi resterà per alcuni mesi. Harry Grant, il protagonista, è accolto sull’isola con tutti gli onori. Di lui in Polinesia è infatti noto il cognome: suo fratello era stato in quei luoghi prima di lui, aveva “sposato” una bella indigena e se ne era tornato in patria per morirvi ancor giovane. Il sangue non è acqua, e Georges ne segue le orme. Dopo il battesimo, durante il quale, in un curioso paradosso pseudo-autobiografico, riceve il nome di “Loti”, sceglie e sposa la sua «scimmietta» (sic!) Raharu alle agili condizioni suggeritegli dalla sovrana Pomaré IV. Costei, ultima sovrana dell’arcipelago tahitiano prima della “spontanea” rinuncia a favore della Francia, è ritratta quale penosa personificazione di decadenza, sposata a uno splendido e impresentabile primitivo che le ha dato un figlio quasi semidivino, ma soggetto ad attacchi di violenza furibonda, che lo spingono a compiere sanguinose stragi notturne. L’amore fra Loti e Raharu poco per volta si approfondisce, ma il ritorno in patria del bell’ufficiale si avvicina, mentre la fanciulla, quattordicenne al momento del primo incontro, matura in quei mesi un corpo ancor più attraente. Anche il suo spirito evolve, tanto da guadagnarle due tòpoi propri della moglie esotica: il giuramento di fedeltà eterna, anche in contumacia, e la convinta conversione al «vero Iddio».
Ma nell’epilogo del romanzo, in Inghilterra, dimenticate le mimose, gli ibischi e le frequenti abluzioni tra ruscelli e cascatelle (dove, orrore, può capitare di imbattersi nell’«ignobile corpo giallo» di un cinese, turpe seduttore di fanciulle), Loti viene a sapere da un marinaio di passaggio che la poveretta si è degradata a prostituta di marinai. «Lei li voleva tutti – insiste l’indelicato nunzio –; tutti quelli che fossero appena belli». Segue un provvidenziale olocausto purificatore: Raharu muore sola, vegliata appena dal suo malandato gatto, in una di quelle isole che dal 1880 diventavano parte dell’Établissements de l’Océanie, oggi a noi noti col nome di Polinesia francese.
Il lavoro dei librettisti André Alexandre e Georges Hartmann è piuttosto fedele al romanzo, da cui vengono estratti alcuni episodi e distribuiti in tre agili atti dedicati rispettivamente al battesimo e all’innamoramento, all’incontro con l’antica amante del fratello e all’ultimo convegno degli amanti. Due le modifiche più significative, la prima è l’assenza di quella quarta parte tragica in cui la caduta di Mahénu (la Rarahu del romanzo) è gettata in pasto al lettore, in un misto di sadismo e senso di colpa. La seconda è l’invenzione della proposta di partire con sé per l’Europa, fatta da Loti alla sua amata: di ciò non si fa menzione nel romanzo. Successivamente la principessa Oréna quasi vieterà a Mahénu di accettare l’invito, con la doppia motivazione di dover provvedere al vecchio padre – già morto nel libro, tanto che vediamo Loti inciampare nei suoi «lunghi piedi» di cadavere, con uno scatto d’umor nero non infrequente nel testo originale ma del tutto assente nell’opera – e la predizione che, una volta arrivata alla civiltà, la giovane sarebbe presto dimenticata, altra suggestione verdiana, in cui risuona “Un dì quando le veneri” di Germont padre.
Questi aggiustamenti sono interdipendenti: le aggiunte nel finale hanno lo scopo di arricchire una conclusione privata dell’epilogo tragico del romanzo. Eppure, nel terzo dei tre brevi atti (un’ora esatta la durata dell’intera opera) la forza drammatica non sembra all’altezza delle aspettative, né la musica può molto: il duettone non sarà indimenticabile, gli effetti saranno resi con modulazioni poco originali ed eccessiva fiducia nelle cadenze ingannevoli. Il saluto fra i protagonisti, ignari che non si rivedranno mai più, è un arido «à demain», nel quale il giovane compositore non riuscirà a innestare quei brividi sottopelle che un Puccini non ci avrebbe risparmiato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il lavoro di Hahn su L’île du rêve si protrasse con ampie pause per tre anni, e la messinscena dovette attenderne altri quatto, benché patrocinata da Massenet, al quale l’opera è dedicata. Evidentemente i tempi lunghi sono nel suo destino, se solo a inizio 2020 è stata registrata in prima mondiale: merito della Bru Zane, centro di ricerca impegnato nella riscoperta e diffusione della musica romantica francese.
Magnifica la confezione del disco, un vero e proprio libro bilingue, come prevede la collana “Opéra français”, da consultare prima durante e dopo l’ascolto, e di alto livello la registrazione, affidata a all’Orchestra della radio di Monaco di Baviera e al Coro del Concert Spirituel diretti da Hervé Niquet. Il cast vocale è prevalentemente francese e settecentesco di carriera: suona fresca e giovanile la voce di Hélène Guilmette, Mahénu (soprano), un po’ sbiancata nei (rari) acuti; musicalmente solida la prova del Loti di Cyrille Dubois (tenore); bella nel timbro la Téria di Ludivine Gombert (mezzo), così come il basso Thomas Dolié, impegnato in tre ruoli ma notevole in quello del vegliardo Tairapa. L’esecuzione in generale è equilibrata, con un’emersione delle alchimie orchestrali non particolarmente sfacciata a fronte di qualche gradevole intemperanza quasi barocca nella resa degli staccati degli archi (segnatamente nel primo Atto) e di un’atmosfera quasi gluckiana nell’introduzione strumentale al terzo Atto. Le dinamiche sono seguite con gran rispetto, i tempi ragionevolmente cantabili ovunque, talvolta poco contrastati ma agevoli per i cantanti.
Ma torniamo all’ascolto. Spesso la penna di Hahn ha una grande efficacia: ad esempio nella scena iniziale del primo Atto, tra arpa, fiati e coro femminile, trasporta immediatamente l’ascoltatore nel locus amoenus australe, con una melodia squisita. È un tema che ritroveremo in chiusura dell’opera, a significare il ritorno di Mahénu allo stato iniziale, solitario, dopo la separazione. Tutti i personaggi si caratterizzano per un loro motivo ricorrente: quello di Téria, l’amante del fratello di Loti, è un breve modulo, anticipato già nel primo Atto, che ha del galante piuttosto che del tragico; quello del cinese Tsen Lee (tenore) ha invece un carattere comico-grottesco, mentre il vecchio padre canta come da tradizione sopra una severa costruzione barocchizzante, con tanto di gruppetti. Tale motivo funge anche da apertura del secondo Atto e da telaio per una divagazione dal libro della Genesi sottilmente erotica, evidente specchio dell’esperienza edenica e amorosa di Loti.
Insomma, ogni elemento sembra stare musicalmente al suo posto, eppure spesso si ha l’impressione che siamo lontani dalla risoluzione del «dilemma costante di ogni operista francese, conciliare un’invenzione melodica e scorrevole quanto quella degli Italiani con una declamazione naturale ed espressiva del testo poetico», come riassumeva Della Seta riconoscendo a Massenet di aver vinto tale sfida.
Leggendo le lettere di Hahn all’amico pianista Édouard Risler, contenute nell’interessante volume che accompagna il disco si è quasi toccati dall’insicurezza del giovane compositore: «Si tu savais comme c’est difficile!!! Quelle sûreté de main il faut avoir pour composer un opéra en si peu de temps qu’en mettent Saint-Saëns ou Massenet. Et puis, surtout, c’est le goût qu’il faut tant rehercher. C’est si facile de commettre des indélicatesses! On est là comme sur des œufs (…)».
L’impressione generale è in effetti quella di un lavoro composto con mano guardinga, attenta alla fluidità dei temi e all’orchestrazione, deliziosa, priva di spigoli anche nei momenti più colmi di pathos. Ma non è difficile riconoscervi, insieme a questa cautela, il sapore della sfida con sé stessi, come se L’île du rêve andasse compiuta, licenziata senza incidenti, anche a costo di qualche forzatura, di indole o di mestiere. Hahn doveva sentire l’imperativo dell’ultima battuta: vincere la paura e l’insicurezza per chiuderla, per dirsi un compositore adulto, maturo, che aveva scritto un’opera. La scelta dev’essere stata quella di tener duro e non rischiare l’abisso, di non lasciare all’orecchio, ma soprattutto alla penna, il tempo di impuntarsi, badando più agli “errori” che avrebbero potuto screditarlo che non all’inoppugnabilità dell’ispirazione. Le parole sono musicate senza frizioni ma anche senza squarci illuminanti, i personaggi hanno linee sinuose ma due sole dimensioni, il riutilizzo dei temi si giova di armonie diverse in modo efficace ma scolastico. Non è un caso che laddove c’è contemplazione e non azione, ovvero laddove il tempo e lo  spazio non erano un’opzione che il compositore poteva decidere se concedersi o meno ma un imperativo, la musica (non il dramma) brilla e conquista: i cori, per esempio o il duetto finale del primo Atto, “Restons encor, les paupières mi-closes”, passionale e sorgivo. Qui, se pure sopravviene un turbamento all’estasi – il fugace balenio di uno sciame di spettri blu – ormai il canto è sfogato, e si libra nella memoria.

Sempre a Risler, nel settembre del ’93, Hahn con la tenera intimità di un compagno di ginnasio (a caccia forse di conferme) scriveva: «Il y a de grandes fautes de détail, mais des fautes que moi seul puis voir. (…) En somme, ce troisième acte est loin de me satisfaire. Mais:
1) Je n’ais pas le courage de recommencer.
2) Quand même je voundrais, je ne le pourrais pas!
(…)
4) Je veux absolument de finir.
Et voila».

Reynaldo Hahn, L’île du rêve, Orchestra della radio di Monaco di Baviera, Coro del Concert Spirituel
direzione Hervé Niquet
con Hélène Guilmette, Cyrille Dubois, Anaïk Morel, Artavazd Sargsyan, Ludivine Gombert, Thomas Dolié
coproduzione BR Klassik
Bru Zane, 2020, prima registrazione mondiale al Prinzregententheater, Monaco, euro 35,00.