Il cuore del cunto, ovvero l’istinto profondo del narrare Intervista a Salvo Piparo di Filippa Ilardo

Salvo Piparo. Foto di Salvo Damiano

In Sicilia l’arte antica del cunto si perde nella notte dei tempi. Poco importa se ufficialmente la si fa risalire all’Ottocento, difficile non vederci una genealogia in comune con la tradizione aedica e rapsodica della Grecia arcaica. La Sicilia è quindi terra di cunto. Di cuntisti di professione che, su una pedana di legno, con il solo aiuto di una spada, raccontavano a puntate le storie dei paladini di Francia, erano piene le città e le strade dell’isola.
È il maestro Cuticchio a ricondurre l’antico mestiere di strada ad una pratica scenica e, sulla scorta della grande diffusione del teatro di narrazione, molti narrattori contemporanei siciliani si lasciano ibridare dalle tecniche del cunto, in varie forme e con sviluppi molti diversi.
Alla ricerca di cosa sia il cuore del cunto, se esso sia solo una tecnica declamatoria che possa essere usato in chiave decorativistica, oppure se esso conservi ancora la radice della sua origine legata all’oralità e all’improvvisazione, mi imbatto in una delle voci più autentiche di chi fa del cunto l’epicentro del proprio percorso artistico. Si tratta di Salvo Piparo, un artista palermitano che apprende da Cuticchio l’antica arte, ma che si fa contaminare dai cuntatori spontanei delle strade palermitane e che si imbatte poi nel teatro di Salvo Licata, autore tra i più importanti per catturare i tratti del contemporaneo teatro palermitano. 

C’è differenza tra cuntare e recitare?

Il cunto è qualcosa che tieni sottopelle, devi ospitarlo dentro, facendogli spazio. Una storia puoi anche non  raccontarla per anni, ma se è una storia che ti appartiene questa si fa da sola la sua strada, ha solo bisogno di liberarsi. Non potrei raccontare mai una storia che non mi appartiene. Potrei solo recitarla, ma non riviverla attraverso la narrazione. Certo nel narrare viene fuori anche la tecnica attoriale e anche io ho recitato dei copioni a memoria. Oggi vado in un’altra direzione, cioè quella del cunto. Un cunto non sarà mai uguale da una sera all’altra. Per fare un cunto devi sondare il magma di memoria che si nasconde nel profondo di ognuno di noi.

Cunto “Astolfo sulla luna”.

Che cosa è per te improvvisare? 

Se oggi salgo sul palco a raccontare è perché sono mosso da un fuoco: l’improvvisazione è la scintilla di quel fuoco. L’improvvisazione è un attimo, è una folgorazione, è un’intuizione. L’improvvisazione è la libertà di fare entrare dentro la tua storia le intuizioni che hai in quel momento, la direzione che senti più giusta, perché non sei ingabbiato dentro un copione, puoi inglobare idee e visioni nell’istante in cui ti arrivano. Ma per far ciò devi essere recettivo, devi essere in uno stato di grazia. Questo proprio significa raccontare: essere in uno stato di grazia. Il racconto sbarìa (distrae) tutti i pensieri. Tu con gli occhi puoi vedere quello che racconti e lo puoi restituire alle persone.

Puoi chiarire meglio questo punto? 

La visione che è dentro di te, si fa pensiero, parola, suono, diventa di nuovo visione in chi sta ascoltando. Ognuno sta vedendo dentro di sé il proprio film, come un cinema che parte dal suono.
I siciliani questa cosa ce la hanno innata. Abbiamo la capacità di romanzare. Noi romanziamo tutto, tendiamo all’iperbole, all’esagerazione. Tutto quello che fai lo puoi raccontare.
La mia formula di inizio del cunto è: «A Palermo non succede mai niente, ma quando la racconti una cosa la fai succedere».
La narrazione ci pulisce dalle scorie della vita, perché mentre raccontiamo anche la bucatina della ruota esorcizziamo l’evento e possiamo anche riderne. 

Stai dicendo che il racconto dà vita al mondo, è la parola che crea il mondo e lo libera dall’accadere del tempo? 

Le cose accadono perché devono accadere. La parola immortala gli eventi, anzi li rende vivi, ogni volta che racconti.

Cunto “Presepe di Palermo”. Foto&Grafica di Di Vincenzo Domenico

Qual è la materia dei cunti? Da dove ricavi la tua materia? 

In questo momento sto raccontando le parole, con lo spettacolo Scordabolario che è anche un libro edito da Flaccovio. Ma le materie sono le più svariate. Dal piatto culinario, all’invocazione di un santo, alle feste, la festa dei morti, il festino di Santa Rosalia. Del festino ne ho raccontato in mille modi, attraverso i quali ho sviluppato percorsi di riflessione sulla fede, sul sacro e il profano, sul rosso e il nero di Palermo che raccontano il mafioso che sul suo comodino ha la sacra Bibbia.
Il mio compito è scansionare con il cuore i vizi e le virtù dell’essere siciliano.
Così con i classici: ho capito che dovevo raccontarli alla mia maniera, trovando linfa nel mio quartiere, nella mia città, in quei suoni e in quelle illuminazioni. Quando mio nonno mi raccontava di Orlando e Rinaldo mi vibrava la pancia.

Prima ancora che fosse traghettata a teatro, questa era una tradizione di strada, diffusa nella città di Palermo, per le strade, per i quartieri popolari.

La mia è una “poetica del marciapiede”. Mio nonno faceva il ciabattino Al Capo, c’era un gruppo di compari che amava raccontare. Non raccontavano dei paladini di Francia, ma le zuffe, le sciarre, le coltellate, la taverna, la fame. Soprattutto la fame. È un tema importante nella narrazione siciliana. Pietro Fudduni entra prepotentemente nel mio immaginario e nel mio percorso artistico.  Approfondendo questa figura arrivo alla conoscenza delle vastasate, alla commedia dell’arte dell’isola di Sicilia. Una volta un anziano signore mi fece sentire un cunto in cui la cadenza era impastata di  ritmo gregoriano. Quella per me è stata una folgorazione. Aveva un ritmo incandescente. È quello che un narratore dovrebbe fare: avere il proprio respiro, lasciarlo diventare tono narrativo, affinché il racconto non sia monocorde. Altri cuntatori mi hanno trasmesso l’importanza delle pause. Nella narrazione la pausa è più importante che a teatro. È una pausa fluida, carica, piena.

Che mi dici invece della tecnica vocalica, ovvero il ritmo fonatorio fatto di accenti sincopati che scandiscono il momento della spannung del racconto? 

Il punto è che ogni cuntista dovrebbe trovare il proprio modo, non può imitare quello di un altro. La metrica è la fissazione di molti, perché piace, è riconoscibile.
Ma la metrica non è il cuore del cunto. Il cunto semmai è l’esigenza di raccontare una storia che ti parte da sola. È l’affabulare anche solo con gli occhi sgranati. Con le mani aperte. Un attimo prima le mani sono arrunchiate, piccole e nascoste, nel furore della narrazione  si aprono, diventano cartelloni, perché le tue mani questo sono, sono le mani di un creatore, che possono far vedere quello che racconti.
La metrica nasce quando c’è un istinto narrativo che la fa nascere, né prima né dopo. Allora il cuntista va in uno stato di grazia in cui il discorso è spontaneo e, nello stesso tempo, preciso. Se lo stabilisci a priori ammazzi il cunto, lo hai ingabbiato, gli ha messo il collare. Luigi Burruano mi disse una volta, prima di entrare in scena: «Caro compare, senza collare».
Il cunto è passione che si fa parola. Gli antichi contastorie non conoscevano la teoria del dettagliare il verso. Ognuno di loro, secondo la loro enfasi e il loro estro, mettevano in scena una metrica che vivevano. Era il loro ansimante respiro, la voglia di farti vedere una spada che entra ed esce.

Perché hai deciso di narrare? 

Il mio inizio è dovuto ad una scommessa. La mia fidanzatina di allora mi portò a vedere una spettacolo di narrazione. Io ne rimasi deluso. Così deluso che lei mi sfidò: prova tu a fare di meglio. Dopo un anno nacque il mio primo cunto, Mare affezionato, dove raccontavo il quartiere dell’Albergheria e la storia della mia famiglia. Negli anni questo cunto me lo sono portato dietro. Anche in Ulisse inside, racconto l’Ulisse che abbiamo dentro di noi. Racconto la guerra di mafia e la Guerra di Troia, ci metto dentro l’anima di questo quartiere. Nel quartiere ci furono delitti molto particolari che appartengono al maxiprocesso.

Nel tuo percorso incontri poi i testi di Salvo Licata, giornalista, regista, scrittore, autore di teatro e di cabaret. 

Fu sua figlia Costanza che mi vide a Portella della Ginestra e mi disse: «Tu sei il nuovo Peppe Schiera. Sei allampanato come lui». (https://www.youtube.com/watch?v=heRYAhzsw08).
Pure lui fa il cunto, ma la sua è una parlata disfattista, una declamazione che diventa tiritera e scioglilingua, con un suo ritmo e una sua metrica, con il suo tono irriverentissimo e grottesco.
La scrittura di Salvo Licata ha ispirato tutto il mio lavoro e la mia scrittura. Licata ha creato un teatro scomodo, il Teatro dei Travaglini, un teatro che metteva alla berlina il fascio, i politici, i mafiosi, i potenti, degli anni Settanta, Ottanta. Cercheranno poi di commercializzare il suo giocattolino dell’irriverenza e lui lascerà il teatro.
Io mi sono ispirato a questo teatro mescolando al cunto la satira. Molti miei spettacoli nascono da spunti della sua opera, da La ballata del sale in cui canta Rosa Balistreri, o Rais, in cui in una versione c’era anche Cuticchio, che faceva il personaggio di Pesce Spada. Ho letto e riletto mille volte i suoi copioni.

Tramandare l’arte del cunto è possibile? 

Molti hanno paura di trasmettere questa arte che, come si diceva nel passato, si deve piuttosto rubare. Io credo che il cunto possa essere motivo di riscatto, di identità, di trasmissione di valori. Un vero maestro quindi non deve essere geloso della propria opera, anzi deve far sì che nuovi allievi tramandino alle generazioni future questo ricchissimo patrimonio di memoria.

Cunto “Poeti ed eroi”. Foto di Salvo Damiano