Lino Musella: il teatro, un gioco necessario alla vita Intervista di Patrizia Vitrugno

Lino Musella. Foto di Mario Spada

Il grande “gioco” del teatro si è fermato di nuovo. Lo scorso 25 ottobre ha segnato un’altra data triste per lo spettacolo dal vivo e il mondo che gli gira intorno. Al Teatro San Ferdinando di Napoli aveva da poco debuttato Tavola tavola, chiodo chiodo… di cui Lino Musella è autore e interprete. Una nuova produzione della Elledieffe diretta da Carolina Rosi e del Teatro di Napoli – Teatro Nazionale diretto da Roberto Andò, che nasce proprio nella forzata pausa imposta dalla pandemia la scorsa primavera. Una pausa che, purtroppo, si è resa nuovamente necessaria e che induce, inevitabilmente, a nuove riflessioni che Lino Musella ha condiviso con noi.

Cosa pensi di questo ennesimo stop?

Io penso che manchi una forma di coscienza su quello che è il fenomeno teatro, soprattutto qui a Napoli. Credo che manchi una riflessione da parte delle istituzioni più che da parte di noi artisti e lavoratori dello spettacolo perché il teatro viene mandato avanti da singole associazioni o artisti che però fanno un lavoro per tutti. Sarebbe necessaria proprio una inchiesta sul mondo del teatro a maggior ragione in una città come Napoli dove ci sono realtà come la Galleria Toledo, il Teatro Nuovo, lo stesso San Ferdinando che si trova nel borgo sant’Antonio, un quartiere molto popolare, o ancora il Nest o il Teatro Area Nord e l’elenco potrebbe continuare… Mi chiedo: ma in questi quartieri il teatro non è una forma di chiesa laica, libera da qualsiasi tipo di posizione? E poi il teatro dovrebbe far parte dell’educazione dei ragazzi per questo credo ci sia bisogno di un protocollo con il Ministero dell’Istruzione.

Una frase di Claudio Abbado condivisa sui social da moltissimi artisti in questo periodo è stata: «La cultura è un bene comune primario come l’acqua; i teatri, le biblioteche, i cinema sono come tanti acquedotti». Sei d’accordo che il teatro sia necessario?

Il teatro non solo è necessario ma fa un grande lavoro di sponda per molte altre cose. Come provocazione mi piace dire addirittura che il teatro serve alle pizzerie, ma che le pizzerie non servono necessariamente al teatro. Che il cinema è in debito con il teatro, ma in debito di autori, attori, registi, mentre noi siamo in debito con i film, con la cinematografia. È chiaro che l’arte cinematografica ci influenza però la professionalità magari no. È più difficile che un direttore della fotografia si metta a fare il teatro piuttosto che il contrario. Quindi se da una parte noi teatranti giustamente dobbiamo far sentire la nostra voce dall’altra è come se avessimo questo senso di inferiorità che ci portiamo avanti dagli anni Cinquanta. Il che è sbagliato soprattutto in città come Napoli dove ci sono moltissime realtà teatrali che lo dimostrano con le loro attività.

Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, ha detto che chi protesta non ha capito la “gravità della crisi”. Come rispondi?

Questo è un discorso molto delicato nel senso che non esiste solo la salute fisica ma anche quella mentale e spirituale. Stare attenti a non ammalarsi di Covid ma uscire da questa pandemia con un numero elevato di persone depresse o schizofreniche secondo me incide comunque sulla salute. Quindi se è di salute che si parla parliamone in un senso un po’ più ampio perché anche quella mentale è salute fisica. E io credo che se attorno abbiamo dei fermenti di un certo tipo, di cultura, spettacolo, migliora la vita di tutti, anche di chi non ne usufruisce direttamente.

Lino Musella in una scena di “Tavola tavola, chiodo, chiodo…”. Foto di Mario Spada

Questo spettacolo nasce dalla pausa imposta dal Covid ma che già nel titolo, che ti chiederei di spiegare, possiede però una grande forza che porta a guardare al futuro con ottimismo: è così?

Questo titolo sono le parole con cui termina la dedica che Eduardo riserva a Peppino Mercurio, il suo storico macchinista, e che fa incidere su una lapide tuttora posizionata sul palcoscenico del San Ferdinando. Un omaggio al suo capomastro che tavola su tavola, appunto, aveva ricostruito quello stesso palcoscenico distrutto dai bombardamenti nel ‘43. Si tratta di un motto che io stesso ricordo da ragazzino perché in modo un po’ ermetico esprimeva sì una modalità di lavorare faticosa ma anche la pazienza di rimettere su qualcosa pezzo dopo pezzo. E secondo me racchiude anche il senso che accomuna molti della mia generazione e della generazione subito dopo perché noi siamo nati in un periodo in cui abbiamo dovuto ricostruire e, alla luce della situazione che stiamo vivendo, è ancora più attuale perché si tratta di ricostruire e di rimettere in piedi qualcosa che forse in parte era già franato.

Perché proprio Eduardo ha stimolato la tua riflessione durante il lockdown?

Eduardo è un uomo che cronologicamente ha attraversato tutto il 900, cioè è nato nel 1900 ed è morto nel 1984. E al di là della sua importanza come drammaturgo, come attore per quello che è riuscito a ottenere anche come riconoscimento in vita, è un uomo che per tutta la vita si è confrontato con la “questione teatro”, cioè la riflessione che le istituzioni dovrebbero fare sul teatro. Negli anni Trenta per esempio lui ha lottato per portare avanti la sua compagnia assieme ai fratelli, perché usciva fuori da una tradizione e cercava di fondare un nuovo modo di intendere la scena e lo ha fatto fino agli ultimi giorni di vita. Eduardo si è fatto carico della questione teatro, è stato un pensatore del teatro e anche se non ha scritto testi di pensiero in realtà ha prodotto molto pensiero.

In che modo Eduardo affronterebbe o commenterebbe quanto stiamo vivendo?

Credo che avrebbe sorvolato sulle stesse riflessioni sulle quali ho sorvolato io e magari molti come me e cioè se noi ci relazioniamo al vecchio modo di intendere la platea ci troviamo un po’ in un vicolo cieco ma non solo per il Coronavirus perché sono anni che diciamo che i teatri nazionali vanno avanti con gli abbonati che però sono ultra 60enni… Io penso che lui avrebbe aggredito letteralmente le nuove generazioni, cercherebbe in tutti i modi di arrivare all’uomo e allora se si arriva alle nuove generazioni io sono d’accordo su qualsiasi fronte, anche sullo streaming, cioè se l’obiettivo sono loro, allora per me va bene qualsiasi mezzo. E allora di teatro bisogna parlarne a X Factor, bisogna entrare nelle scuole… Ovviamente bisogna anche conquistarli i ragazzi essendo anche consapevoli dei propri mezzi e delle difficoltà che incontrano le nuove generazioni nell’approcciarsi a ogni forma di disciplina. Secondo me il problema di un giovane è riuscire a mettere più materie assieme cioè riuscire a capire perché esiste la storia e allo stesso tempo la chimica, perché esiste la geografia e la matematica. Il teatro è una forma molto semplice che attraverso il gioco ti insegna a mettere insieme più materie. E a capire anche molto della vita perché attraverso un meccanismo di gioco chiede di drammatizzare cioè di mettere in luce quelli che sono i conflitti di una storia e, attraverso questi conflitti e queste riflessioni, giocare col presente. E poi molto semplicemente il teatro mette al centro l’uomo e la riflessione sull’essere umano. Tutti i problemi di oggi come il consumismo, la velocità, in realtà cosa ci portano a dimenticare? L’uomo, l’essere umano. E di questo bisogna parlare continuamente.

La musica è un elemento importante del tuo teatro (collabori spesso con Marco Vidino come in L’ammore nun’ è ammore, Tavola tavola, chiodo chiodo…): se il tuo teatro fosse musica quale musica sarebbe?

Io sono molto legato ai tanghi per cui direi una milonga. Io credo che la musica sia una cosa importantissima. La partitura di un attore anche quando sembra naturalissima è sempre musicata. Se crei una musica sei in grado di fare delle variazioni e quindi sei anche in grado di poterla rompere quella musica… Io poi mi trovo molto bene a lavorare con i musicisti perché conservano il doppio valore del “play”, del gioco, che è una cosa che spesso gli attori perdono, cioè i musicisti sono più pronti a giocare, a suonare insieme. Quando un musicista incontra un altro musicista e gli piace come suona gli chiede di suonare insieme, cosa un po’ più difficile tra attori. Con tutti i musicisti con i quali ho collaborato ho sempre cercato di spiegare che la musica non è un supporto, non è un commento ma è una tessitura drammaturgica.

Nell’ideare uno spettacolo, ti è mai successo che ti ispirasse prima una musica di un testo?

Direi sempre, ci sono sempre delle musiche che poi magari non usi ma che ti producono immagini quindi molto spesso ci sono delle musiche anche stupide che non useresti ma che ti fanno pensare a quella scena lì e te la fanno immaginare e poi creare. Per esempio in Tavola tavola, chiodo chiodo… per quanto ci sia magari qualche passaggio più melodioso o una citazione a una musica composta per questo lavoro di Eduardo o un pezzo di una registrazione degli anni Trenta che lui canta, la prima ispirazione musicale, per quanto riguarda l’Eduardo politico, è stata un flamenco, un qualcosa di andaluso, con un’anima sicuramente melodiosa però anche aggressiva, rabbiosa, una passionalità anche più calda della nostra.

Tommaso De Filippo e Lino Musella. Foto di Mario Spada

Le collaborazioni tra attori, dicevi, alle volte sono meno facili che tra musicisti. Penso però alla compagnia Mazzarelli-Musella: come si fa a scrivere in due?

Noi abbiamo sempre scritto con modalità di volta in volta diverse, cambiando sempre le regole del gioco. Non parlo della nostra complicità perché ormai abbiamo capito quali sono le potenzialità dell’uno e dell’altro, ma dei modelli di scrittura. Per esempio i primi testi erano improvvisati e scritti in scena cioè andavano quasi sbobinati perché non c’era un copione. Certo avevamo delle tracce ma in scena si era prodotto un lavoro che poi è rimasto in scena. In altri casi abbiamo metà scritto e metà improvvisato. In altri ancora abbiamo scritto tutto. Poi è successo che abbiamo scritto una storia semplicissima quasi con un modello eduardiano, poi abbiamo scritto storie che si intrecciavano dando vita a una vera e propria architettura drammaturgica più che a un testo, e poi siamo passati all’adattamento e riduzione di opere shakespeariane. Quindi credo che se il nostro gioco dovesse continuare sarà perché troverà altre forme. Io spero vivamente che si torni a un gioco di scrittura perché quella è la chiave più forte che possiamo produrre insieme.

È possibile fare nuova drammaturgia in Italia?

Non lo so perché anche qui bisogna un po’ ridefinire i piani da un punto di vista critico, nel senso che la regia critica in Italia ha giustamente assunto un ruolo da protagonista. Abbiamo avuto e abbiamo dei grandi registi e autori però la regia d’autore offusca molto il drammaturgo perché il drammaturgo scrive sulla carta qualcosa che ha delle regole precisissime ma interpretabili in più modi e questo antico gioco del teatro si è un po’ perso con il teatro di regia. Mi ci metto in mezzo anche io ovviamente perché se io e Paolo (Mazzarelli, ndr) scriviamo dei testi che poi possiamo mettere in scena da soli, questo ha delle potenzialità ma è anche un limite perché è autoriale e scenico contemporaneamente. Penso a un Pirandello che scriveva per un attore preciso così come a Eduardo e probabilmente anche a Shakespeare che si faceva ispirare da qualcosa che succedeva lì, però questi testi restano, quindi quello che resta nel tempo è la drammaturgia: questo noi l’abbiamo un po’ dimenticato. C’è una lettera incredibilmente attuale che io leggo nello spettacolo ed è una lettera che Eduardo scrisse nel ‘59, all’allora ministro al Turismo e Spettacolo, Umberto Tupini, in cui dice cose molto precise su come in Italia si sia, secondo lui in maniera quasi scientifica, sottomessa la figura del drammaturgo a favore di altri tipi di interpretazione che lui condanna. Io però sono dell’idea che abbiamo sicuramente avuto un bel teatro di regia ma è anche vero che per secoli in teatro esisteva innanzitutto l’autore che oggi invece è all’ultimo posto. E quel tipo di cultura ormai è finita, non è più possibile, la dovresti restaurare, reinserire.

Premio Ubu come miglior attore per The Night Writer. Giornale notturno diretto da Jan Fabre: cosa ti ha dato questo premio? Traguardo o nuovo punto di partenza?

Spero di non incontrarli mai questi traguardi perché altrimenti smetti di produrre cose interessanti. I riconoscimenti, inutile dirlo, sono importanti e servono sempre perché facciamo un lavoro pericoloso e le conferme e i riconoscimenti servono a darci benzina. Sicuramente il Premio Ubu ha una sua storia importante, soprattutto per la mia generazione. Devo dire però che essendoci arrivato con una certa maturità e non a 23-24 anni, l’ho vissuto con un piacere un po’ diverso. E poi credo che i più grandi riconoscimenti sono quelli che arrivano da parte di altri attori, anche anziani e che stimi molto. Di questi ne ho ricevuti tantissimi e credo che valgano anche più di un Ubu perché aiutano di più nel dettaglio del tuo lavoro che non nella carriera.

Che ruolo ha il pubblico per te, per il tuo lavoro?

È tutto per lui, diciamo così. Il pubblico per me è qualcosa allo stesso tempo di molto concreto e di metafisico. Non ho mai pensato di avere un mio pubblico, o non ho mai pensato a quel pubblico nel creare qualcosa quindi penso sempre al pubblico ma non penso mai a un pubblico. Sicuramente è importante perché il pubblico dal palco lo devi sentire e io riesco a sentirlo anche in questo periodo che stiamo vivendo. Spero che un giorno, molto presto, questa possa essere solo un’esperienza passata, un esempio di resistenza ma anche di nuova conoscenza perché nessuno mai ha recitato con il pubblico in queste condizioni. È un’esperienza che il corpo deve fare soprattutto perché ti viene una specie di senso di colpa nel vedere e sentire il pubblico così distanziato, che indossa le mascherine e ti poni il problema che loro siano in sofferenza. In realtà basta vedere uno spettacolo dal di fuori per capire che non è così, che da spettatore nonostante le distanze e la mascherina alla fine è comunque qualcosa che ti nutre, che ti fa pensare. Per questo io credo che i teatri debbano restare aperti perché qualcuno può decidere di nutrirsi di quello e quel nutrimento servirà magari per settimane, anche se lo spettacolo non è piaciuto. Del resto il teatro è una delle grandi invenzioni dell’uomo quando si è creata la comunità. Anche molto banalmente io dico che sono sociale ma non sono social perché credo in quel tipo di contatto profondamente laico e libero che è il teatro. Ecco, il teatro è più giusto di un tribunale perché sei tu che fai i conti con quello che hai visto e sentito.