Anagoor e Baro d’evel al Romaeuropa Festival di Paolo Ruffini

“Mephistopheles”.

Spettacoli molto diversi tra loro, il primo un vero e proprio film con scrittura musicale eseguita dal vivo mentre l’altro un lavoro dinamico al limite di azioni da nouveau cirque, sembrano raccontarci aspetti della nostra esistenza paradossalmente dallo stesso punto di vista (sebbene i due lavori abbiano nulla in comune), ovvero con la stessa lente sfocata che volutamente si allontana formalmente da quell’”adesso” temporale e dai suoi immaginari di riferimento che hanno contagiato molti registi e danzatori con il risultato che un po’ tutti fanno la stessa cosa, si muovono, parlano e scrivono musica o definiscono ambienti nel trend di un vocabolario non scritto ma ormai assorbito. In antropologia si parlerebbe di rappresentazioni incorporate, seppure la restituzione di vezzi, comportamenti e slang linguistici di questo mondo omogeneizzato rimangono approssimativi.

“Mephistopheles”.

Stanno da un’altra parte sia il Mephistopheles della ormai matura compagnia Anagoor, che si misura con un viaggio – ci dicono – meditativo sul mondo, un mash-up tra il documentario e la fiction dove il primordiale e la concretezza assurgono a totem interpretativi di un mondo versato a capitolare, che il lavoro dei francesi Baro d’evel , all’opposto del segno del medium scelto da Anagoor si apre leggero sia come peso concettuale che come architettura scenica, capace cioè di scatenare un riso pacato di un teatro che assorbe dal circo la spazialità surreale e dalla danza più sfaccettature nella reinvenzione continua delle gestualità.

“Là”. Foto di Piero Tauro

Due posizionamenti, dunque, collocabili in uno stesso corridoio esistenziale à rebours, in quel pensiero inattuale alla Huysmans, lavori cioè a-temporali e ostinati nel ricercare un proprio codice espressivo d’autres fois, nondimeno che rischiano però un disincantato déjà vu. L’opera-film Mephistopheles trova il gancio con l’autore faustiano nell’Italienische Reise accennato in una prima parte del film dove si ricostruisce un ambiente “da camera” con figure in costume, probabilmente gli ultimi giorni di Goethe; il camino che arde in una scena pastellata alla Segantini, pagine di libro scritte e riscritte, toni cromatici flow, solo un preludio prima della catarsi alla quale siamo chiamati ad assistere, quella di un mondo nel quale dovremmo riconoscerci, ormai rovinoso. Animali al macello con la videocamera impietosa che riprende i loro ultimi istanti di vita, una natura deturpata dall’insensatezza umana, riti religiosi dal monoteismo al cosiddetto Oriente, masse e persone in preghiera, case di cura per anziani ritratti questi in un dolente abbandono, le immagini sono perfette, calibrate, anche molto accondiscendenti a un’estetica alla Nitsch in un’andata e ritorno da The Tree of Life di Terrence Malick, emozioni perseguite come nel Genet a Tangeri dei Magazzini Criminali e una certa liricità rituale tipica della Socìetas. Che anche nella partitura del live set di Mauro Martinuz marca un territorio consolidato, fascinoso laddove la fascinazione è nei suoni rintracciabili nelle memorie del presente. Per contro, il duo franco-catalano dello spettacolo si addentra in un universo privato, stanze e oggetti funzionali tuttavia al carattere di instabilità della scena; pareti attraversate da feritoie attraverso le quali entrano ed escono corpi, afflati passionali o incroci di voci intrecciano un sistema di cadute e ritorni. Ogni elemento si scompone ricomponendosi in una ininterrotta successione di gesti non mediati. Anche il passaggio di un bimbo sembra aprire tangenziali ritmiche tra la donna e l’uomo, residui di un tempo ordinato che fu. Ci ricorda Friedrich Nietzsche che l’ispirazione della stanchezza suggerisce meno quanto va fatto che quanto può essere tralasciato (1) perché di sezioni drammaturgiche a perdere ce ne sono in questo lavoro geometrico, così figlio di un pensiero sul ritmo quasi una ennesima versione del kafkiano Descrizione di una battaglia di Giorgio Barberio Corsetti, dove si trasforma lo spazio assieme agli equilibri dei performer in un lascito di piccole epifanie fisiche, di materiali personali e oggettivi dei personaggi-interpreti, di azioni, lacerti, versi di un archivio di memorie di un vissuto antico, anche in questo caso, ipotesi persino drammatiche in quegli accenni, fraseggi improvvisati, scomposte articolazioni del corpo e della voce. Ci si chiede quanto la forma possa ancora prevalere sul senso di quello che si sta facendo, scontornandola dalla Storia, dal tempo che si vive.

Nota
1)Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi 1879 -1881, Adelphi, Milano, 1975, p. 245.