Tiresias di Giorgina Pi: mito, poesia e rap per “restare se stessi” di Laura Novelli

Foto di Lau Chourmo

Da diverso tempo la regista Giorgina Pi e il collettivo Bluemotion (nato all’interno dell’eclettica operatività dell’Angelo Mai di Roma) guardano al repertorio drammaturgico e letterario britannico quale significativo serbatoio di scritture capaci di intercettare la complessità del contemporaneo e, tanto più, di ridisegnare sull’oggi – quest’oggi così sconquassato e tremulo – archetipi classici incisi nel dna della civiltà occidentale.
Dopo aver messo a segno un felice affondo nel teatro di Caryl Churchill attraverso la trilogia Non Normale, Non Rassicurante. Progetto Caryl Churchill (2017/2018), l’artista romana ha instaurato, negli ultimi anni, una fruttuosa sintonia con l’immaginario della londinese Kate Tempest, scrittrice, poetessa, rapper e live performer trentacinquenne molto amata dal grande pubblico e insignita di prestigiosi premi. E basti leggere le sue opere o guardare i suoi video su Youtube per capire che questa giovane donna dalla voce di velluto e gli occhi luminosi rappresenta un fenomeno davvero unico: una cultrice della “parola” nella cui produzione si fondono raffinatezza letteraria e rabbia generazionale,  declinazioni pop (e hip-hop) e rispettoso ossequio della classicità, vis rivoluzionaria e solida formazione umanistica. Se nel 2019 Giorgina Pi ne aveva rielaborato il corrosivo Wasted (debutto a Modena), quest’anno è la volta dello splendido poema Hold your own (Resta te stessa), tappeto di suggestioni, stimoli, visioni e provocazioni cui attinge Tiresias, ultima produzione di Bluemotion pensata come una perturbante elegia in musica per un attore solo che, in cartellone all’interno della rassegna Short Theatre ma già vista a Olinda, festival Da vicino nessuno è normale e a Santarcangelo, condensa in quarantacinque minuti di spettacolo la corposa materia del testo, sovrapponendo mito e attualità, simboli tragici e utopie giovanili, tematiche identitarie e recriminazioni sociali, paure ancestrali e angosce contingenti.
Nel silenzioso giardino del trasteverino WeGil, l’impianto dello spazio scenico è ridotto all’osso: un tavolino con una consolle da dj e due piatti per vinili (impianto sonoro a cura del Collettivo Angelo Mai), qualche microfono ad asta, numerosi fari posizionati a terra per circondare l’area “sacra” della rappresentazione. E poi, sul fondo, quelle imponenti Mura Aureliane che sembrano una scaenae frons sospesa nel tempo. Il giovane interprete, Gabriele Portoghese, sbuca dagli alberi, dalla penombra, e si trasforma nel dj, attore, performer, poeta, corpo scenico chiamato a raccontare e raccontarsi. Felpa e cappuccio scuri, il suo primo Tiresia è un adolescente incredulo, arrabbiato e fragile che cerca se stesso nei rivoli di ambiguità ineludibili.

Foto di Claudia Pajewski

C’è un afflato incisivo, morbido e insieme acre, nel registro che l’attore (diploma all’Accademia Silvio D’Amico, esperienze professionali con registi importanti e un’interessante prova nel Jakob von Gunten diretto da Fabio Condemi alla Biennale 2018) adotta in questi primi lampi della pièce. Lontano dall’iconografia del rap e dagli stilemi della poesia di strada, egli rimanda piuttosto l’immagine di un aedo contemporaneo che in jeans e maglietta manovra un linguaggio a tratti sguaiato ma sempre alto. L’evocazione mitologica chiama in causa, attraverso Tempest (qui tradotta da Riccardo Duranti), Esiodo, Omero, Sofocle naturalmente, e scivola sulla pelle di un ragazzo di oggi che, rincorrendo le visioni desolate di T.S. Eliot,  parla del suo disagio, della sua ricerca identitaria e sessuale, del suo bisogno di consistenza. Un ragazzo come tanti che dice-declama-urla-balbetta-enfatizza la vacuità, la perdita, l’abisso del non sapere nulla di sé. D’altronde suonano così i versi iniziali dell’opera della rapper inglese (udibili solo alla fine della pièce):

When time pulls lives apart/ Hold your own/ When everything is fluid, and when nothing can be known with any certainty/ Hold your own / Hold it ’til you feel it there/ As dark, and dense, and wet as earth /As vast, and bright, and sweet as air (…).

(Quando il tempo divide le vite/ Resta te stessa / Quando ogni cosa è fluida e quando nulla può essere noto con certezza/ Resta te stessa/ Resta te stessa / fin quando non ti senti /così scura e densa e umida come la terra / così vasta, e luminosa, e dolce come l’aria (…).

È dunque il senso del vuoto (il non poter/sapersi “vedere” come individui) il grande tema del monologo. Alle radici di questo tema c’è il cieco Tiresia e alle radici della cecità di Tiresia ci sono altre zone di ambiguità: l’incontro con i due serpenti in atto copulatorio, la trasformazione del futuro indovino in donna, il successivo suo ritorno in un corpo maschile, il quesito posto da Era (se in amore goda di più la donna o l’uomo), la punizione della dea per la risposta data.

Foto di Claudia Pajewski

Tutti passaggi che l’intelligente regia di Giorgina Pi affida a un sottile equilibrio di ritmi scenici diversi (ora più serrati ora più languidi), a una splendida scelta musicale e, soprattutto, alle metamorfosi repentine dell’unico interprete, molto bravo nel trascinare il pubblico dentro l’anima ribelle di questa vicenda (cui molto fascino conferisce l’avvolgente gioco di luci firmato da Andrea Gallo) ma forse a tratti rischiosamente didascalico ed enfatico. In particolare, alcuni momenti della seconda parte della pièce (laddove, per esempio, egli dà voce sia a Zeus sia ad Era muovendosi tra due microfoni posti ad una certa distanza l’uno dall’altro) avrebbero secondo noi richiesto un’interpretazione virata verso una maggiore sobrietà espressiva, una maggiore asciuttezza e, perché no, verso una maggiore epicità.  Epica e lirica d’altronde convivono nello spoken word poetry di Tempest: il beat della musica rap non sacrifica la metrica tradizionale inglese né la potenza dei testi ma possiede una leggerezza sommessa, un distacco “empatico” dalla sua propria materia, che la solennità della declamazione altisonante rischia, invece, di compromettere.

Foto di Claudia Pajewski

Tanto più che proprio la seconda parte di questo intenso monologo/concerto è quella decisiva: qui si compie il passaggio dal buio alla luce, dal vuoto al pieno. Già cieco, già vecchio, già punito dalla vendetta della temibile dea, già fuori dal tempo e dal reale, Tiresia guadagna il dono più alto: la vista della mente, la preveggenza del futuro, la sapienza delle sapienze. Da questo momento in poi, egli “non potrà più distogliere lo sguardo”. Non potrà più esimersi dal rappresentare le ambivalenze fluide dell’esistenza: maschio-femmina, giovane-vecchio, bene-male, verità-falsità, illusione-realtà, ricchezza-povertà, uguaglianza-discriminazione, certezza-incertezza. Come un archetipo junghiano che risiede dentro ognuno di noi, Tiresia ci insegna a non avere paura di attraversare il fiume delle nostre paure e pulsioni. A non avere paura di amare (e di amore Hold your own molto ci dice).  A non avere paura di ciò che ci rende vulnerabili. Perché c’è sempre un modo per “restare se stessi”. O, per lo meno, per provare a “cercare se stessi”.   Anche nel pieno di una pandemia che ci espone ogni giorno alla nostra caparbia fragilità.

Tiresias

un progetto di BLUEMOTION
da Hold your own/ Resta te stessa di Kate Tempest
traduzione di Riccardo Duranti
regia Giorgina Pi
con Gabriele Portoghese
dimensione sonora Collettivo Angelo Mai
bagliori Maria Vittoria Tessitore
echi Vasilis Dramountanis
costumi Sandra Cardini
luci Andrea Gallo
direzione di produzione Alessia Esposito
comunicazione Benedetta Boggio
produzione 369gradi/Angelo Mai/Bluemotion.

Short Theatre, Roma, 5 e 6 settembre 2020.

Lo spettacolo sarà dal 20 al 22 settembre 2020 all’Angelo Mai di Roma e il 25 settembre 2020 nel cartellone del festival Città delle 100 Scale di Potenza.