Vetrano e Randisi e l’ironia tragica di Palazzolo: A’ Cirimonia tra memoria e oblio di Filippa Ilardo

Foto di Giusva Cennamo

Si usa il verbo brillare quando gli artificieri hanno a che fare con un ordigno esplosivo. Se due giganti indiscussi del teatro, come il duo Vetrano e Randisi, hanno per le mani un congegno drammaturgico come quello di Rosario Palazzolo, poetico e disperato, sospeso in una deriva spazio-temporale che è la deriva dell’essere, allora è possibile apprezzare la congruità con la ricerca, fin qui maturata, dai due attori-registi che hanno portato in scena, al Napoli Teatro Festival, lo scorso 26 e 27 luglio, ‘A Cirimonia.
E non è solo un fatto di origini in comune, né di cadenze dialettali, seppure la lingua – leggermente italianizzata – vi risuona in tutta la sua potenza espressiva, né di una presunta sostanza antropologica che fa  di Palermo uno dei luoghi “più vicino all’abisso”; è più che altro un fattore che trova le sue uniche ragioni attorno e dentro la parola Teatro.
‘U Masculu e ‘A Fimmina, sono due esseri che si ritrovano a celebrare qualcosa che non ricordano, uno ha addosso abiti femminili senza saperne il perché, l’altro è cieco, ma ogni tanto sembra vederci. Sono “contenti e festivi”, ma non ne conoscono il motivo.

Foto di Giusva Cennamo

Un compleanno, un matrimonio, un anniversario? Cosa devono festeggiare, celebrare, officiare, commemorare, un maschio e una femmina, davanti ad una torta con le candeline?
Aspettano solo che un ricordo si faccia vivo, che rimetta in moto un’esistenza bloccata, in cui non fluisce più il tempo. Aspettano di ricordare perché sono lì e cosa devono festeggiare.
Una cerimonia che si celebra ogni anno, lo stesso giorno dello stesso mese: l’attesa di un ricordo che riveli la verità, che si faccia spazio in una testa piena di vuoto.
Pochi indizi hanno i due per recuperare la memoria del passato: una musica, le sonorità struggenti di Gianluca Misiti, cantate da Raffaella Misiti, e una voce over, un’incursione del drammaturgo-demiurgo da un metafisico fuoricampo.
Chi sono? Dove sono? Cosa devono ricordare? Non è dato saperlo neanche a loro stessi.
Cercano nella ripetizione di un rituale, “il mi ricor-do”, di ripescare quella verità che è impossibile trovare perché non esiste, perché perduta in un abisso arcano della coscienza.

Foto di Giusva Cennamo

Che i testi di Palazzolo si aprano ad una lettura tale per cui a una realtà particolare e relativa si contrappone una realtà assoluta e universale, riflessa su un piano trascendente, lo sappiamo già, ed è in questa direzione che la regia del duo spinge la propria lettura: la messa in scena risulta essere la teatralizzazione dell’intera esperienza umana.
«Chi siamo, perché siamo, dove siamo, quando siamo… e di tutti questi siamo non mi ricordo neanche un siamo».
Gettati nel mondo in un breve momento di coscienza, circondati da tutti i lati dal mistero connesso con il destino umano, tra rimozione, trauma, coma della coscienza, i personaggi cercano, attendono di capire una qualche relazione tra accadimenti e il loro vissuto. Manca però una cornice di certezze, anzi si mette in discussione il fatto che esista un mondo là fuori in cui si vive.
Tutte raccolte quindi le sfide poste dalla drammaturgia, grazie all’enorme  forza interpretativa del duo in scena che gioca ora sulla rarefazione astratta, ora su varietà tonali sfumate, capaci di far risuonare il testo di profonde intensità emotive.
Enzo Vetrano, nel ruolo di ‘A Fimmina, esprime tutto il candore, la meraviglia, l’incanto di cui è capace l’essere umano, subisce una metamorfosi che gli fa sondare tutte le età, dal vecchio al bambino, dal maschile al femminile.
Stefano Randisi, moderno Edipo già accecato, alla ricerca di una verità che invece sta negando, la sua recherche du temps perdu è impossibile perché avvolta dall’enigma inaccessibile che è lui stesso e che si porta dentro. Una cecità che è buio interiore ed esteriore. Sono personaggi che non esperiscono nemmeno se stessi e che vivono un’esperienza isolata, che non riceve significato dalla somma delle esperienze passate.
In questo caos metafisico, potrebbe venire di pensare all’epoché husserliana, quella sospensione del giudizio di una qualche esistenza del reale: nello spettacolo si mette tra parentesi ogni certezza, si scava sotto lo strato dell’ovvio, del dato per scontato, per eliminare le basilari convinzioni su cui si fonda il senso di realtà.
È un teatro che pone dei personaggi, ma senza metterli in alcun luogo: sono perfetti gli oggetti sbilenchi, immemori della loro funzione, che circondano la scena, realizzati da Mela Dell’Erba, come perfetto è l’archetto, soglia di una liminalità tra un fuori e un dentro, un passato e un futuro.
In attesa di un Godot che è il mistero stesso dell’esistenza, l’ombra nella caverna del nostro passaggio terreno, l’ancoraggio impossibile ad una plausibile o coerente certezza, i personaggi appaiono scissi dal prima e dal dopo, in una tensione irrisolta tra memoria e oblio.

Foto di Giusva Cennamo

I dialoghi sono una tessitura di fumo che divagano, pur nascondendo una maglia di significati nascosti. Anche la trama che non va avanti, diventa figura stessa della vita che non va avanti.
La verità può essere elusa, creduta, non creduta, contraffatta, negata, amplificata, corretta, ma la verità è un frame inesistente, che solo a sprazzi si epifanizza, pronta ad essere ri-vissuta. Questa forse la funzione del teatro? E qui la faccenda si complica. Come sempre.
Sicuramente è forte il richiamo all’elemento rituale del teatro.
Del resto, ogni cerimonia, e qui cito Bateson, è un’attività ritualizzata dove un’intera rete di azioni viene progettata in anticipo, dove si anticipa ciò che deve poi essere svolto, distinguendo tra prova e rappresentazione effettiva.
Un parallelismo, quindi, si instaura tra la cerimonia e la rappresentazione teatrale, del resto l’attore, che nelle rappresentazioni teatrali appare come un altro da sé, fa ri-vivere nel presente qualcosa che è già passato.
Cosa è del resto il teatro se non un ri-vivere sulla scena, un passato che diventa presente, un ritagliare un tempo nel tempo?
Anche il sacrificio eucaristico è transustanziazione in cui la morte e la resurrezione si avverano nuovamente sull’altare, “fare memoria” significa rivivere di persona quell’evento.
Cosa del resto è il teatro se non un verbo che si incarna, un rito in cui l’attore fa sacrificio di se stesso, un rinascere sotto gli occhi dello spettatore, la riattualizzazione o ri-presentazione di quell’evento?
Un bell’incontro dunque nel percorso di entrambi, sia per il drammaturgo Palazzolo, che consegna il proprio testo in mano a due interpreti che ne tirano fuori la lucida follia, l’ironica tragicità, la sommessa crudeltà; per il duo Vetrano e Randisi, un lavoro che completa un percorso di scelte che da Pirandello a Scaldati giunge ora, a Palazzolo, facendo così del teatro un grande rito di simboli universali, quello specchio di verità e finzione che sa diventare il parallelo della vita e incantare infinitamente chiunque vi assista.

‘A Cirimonia
(L’impossibilità della verità)

di Rosario Palazzolo
interpretazione e regia Enzo Vetrano, Stefano Randisi
scene e costumi Mela Dell’Erba
luci Max Mugnai
musiche e suono Gianluca Misiti
elettricista Antonio Rinaldi
assistente volontaria Elena Patacchini
le canzoni dello spettacolo sono cantate da Raffaella Misiti
le voci registrate sono di Rosario Palazzolo e del piccolo Alberto Pandolfo.
Palazzo Reale – Cortile delle Carrozze, Napoli Teatro Festival, 26 e 27 luglio 2020.