LIBERTEATRI > Rino Marino, il sipario si apre ancora a Sud di Filippa Ilardo

Se non lo avete ancora fatto, segnatevi questo nome e questo libro tra le prossime letture teatrali, e aggiornate l’agenda con il  calendario dei suoi spettacoli. Si perché, a chi fosse interessato a seguire il novero delle autorialità più significative che la ricca stagione contemporanea del teatro siciliano presenta, non può e non deve sfuggire la ricerca (coerente, compiuta, di grande maturità artistica) di Rino Marino. Un lavoro più che decennale, quello del drammaturgo e regista di Castelvetrano e della sua compagnia Sukakaifa, in duo con Fabrizio Ferracane, in attesa di ottenere il meritato riconoscimento e la giusta attenzione. Intanto Editoria & Spettacolo pubblica i suoi testi, Tetralogia del dissenno, una raccolta di quattro dei suoi migliori lavori, Ferrovecchio, Orapronobis, La malafesta, Il ciclo dell’Atropo, tutti fortemente rodati dalla pratica scenica (molti di questi sono ancora programmati, tra questi segnaliamo Orapronobis in scena alle Orestiadi di Gibellina il prossimo 25 luglio), ma che superano brillantemente la prova della pagina scritta, consegnandoci opere dal forte valore letterario, oltre che improntate ad una dynamis teatrale dotata di carattere e forte espressività. Quali gli elementi di questo universo teatrale? Un mondo popolato da esistenze marginali, dislocate in una deriva spazio-temporale, in un deserto di solitudini, avviluppati sulla trascendenza di un delirio che trasforma il senno in dis-senno. L’assurdo si nasconde nella ricorsività di certi temi (la natura dei pensieri, l’orologio e la misura del tempo), nell’iperbole dei dialoghi, nel paradosso che svela l’illusorietà del reale, nell’estrema varietà delle tonalità affettive che trapassano repentinamente dall’odio, alla rabbia, all’affetto, alla reciproca comprensione.
Cosa è la dissennatezza se non un sottile rapporto che l’uomo intrattiene con se stesso, una forza primitiva di rivelazione, tesa a demistificare l’ovvietà e la trasparenza che attribuiamo ai significati della vita, all’oscura necessità del mondo. Sembra nascere dalla necessità di una strutturazione di una condizione catastrofica, larvale, differenziale, questo mondo, in cui non esistono il tempo, lo spazio, se non in una forma dislocata, amorfa.
Tutti i testi di Marino sono dotati di una solidissima struttura drammaturgica che ne fanno lavori di grande coesione estetica, tuttavia, di grande rilevanza nella definizione dei caratteri peculiari di questa sostanza autoriale, sono le scelte linguistiche.
La sua è una lingua che sa recuperare la corporeità, grazie al dialetto di Castelvetrano, un dialetto dal gusto arcaico, di cui si assaporano i singoli suoni, di cui si sente in bocca la grana, la voluttà del suono, il gusto della sostanza sonora di ogni parola. La lingua diventa allora un movimento che travalica i confini del singolo enunciato, diventa un organismo fonico, in cui ritmo e sinfonia si fondono. Quella che attua l’autore sembra essere una vera e propria riconfigurazione espressiva del logos, capace di far lavorare le disarticolazioni strutturali dell’esistenza e di porle di fronte al loro limite, di sbilanciarle verso il precipizio della comprensione. Oltre all’espressionistica forza di rottura del dialetto, la struttura dialogica è un vero e proprio gioco d’interazione, un rituale di conflitti, di tensioni perpetue, di azione e reazione, di domanda e risposta, di dominazione e sottrazione, in cui gli attori definiscono reciprocamente i propri ruoli, lottano per conservarli o per rovesciarli, instaurano rapporti di ascolto, di scambio e di replica, di continua problematica incertezza che li costringe a percepire al di là di essi un’altra realtà cui continuamente rimandano, una dimensione contradditoria che non si afferra se non nell’assurdo, nello scivolamento nel rovescio.
La pubblicazione, curata da Vincenza di Vita, si arricchisce di approfondimenti sulla poetica dell’autore tracciati da Luigi Lo Cascio, dalla stessa Di Vita e Giusi Arimatea che elaborano letture analitiche e dettagliate dei testi pubblicati. Ne viene fuori un’opera di grande completezza per chi vuole conoscere l’universo drammaturgico di Rino Marino e i capisaldi del suo percorso teatrale. In un momento particolarmente fortunato per la creazione drammaturgica dell’isola che si impone su tutto il territorio nazionale, impressiona poi notare come la ricorsività di temi e caratteri apparenta fortemente il gruppo dei siciliani tra di loro, in una sorta di campitura di fondo, di linea mediana in cui è possibile rilevare i medesimi presupposti artistici e le stesse motivazioni estetiche, le stesse derivazioni beckettiane, ma che non lascia di fare emergere i profili e le peculiarità dei diversi autori e della forte carica innovativa di ognuno di loro.
Alla fine della lettura viene voglia di conoscerli questi personaggi, così come di leggere gli altri testi esclusi dalla pubblicazione, di frequentare le sale e vedere in scena il duo Marino-Ferracane dare vita e sembianze a queste anime in pena, questi emarginati che fanno del dissenno l’unica modalità di stare al mondo. Ci rivelano che l’onirico è reale, che la sottile superficie dell’illusione si apre su una profondità innegabile che è vertigine, ci lasciano in preda a simboli inquieti, a rimandi oscuri che affondano nel non-sense dell’esistenza.
Sono opere che aprono un vuoto, un tempo di silenzio, una domanda senza risposta, che provocano una lacerazione senza rimedio in cui siamo obbligati ad interrogarci senza mai giungere alla risposta definitiva.

Rino Marino, Tetralogia del dissenno, Editoria & Spettacolo, Spoleto, 2019, pp. 220, euro 16,00.