L’arte apolide di César Brie Intervista di Emanuela Bauco

César Brie, nello spettacolo "120 di Jazz “. Foto di Paolo Porto

Il mio incontro con il teatro di César Brie è avvenuto prima che negli spettacoli sulla carta, con le fotografie, attraverso i racconti.  Lo vidi la prima volta alla fine degli anni ‘90 a Sulmona dove presentava Solo Los giles mueren de amor (Solo gli ingenui muoiono d’amore). Venni a sapere all’ultimo momento dello spettacolo così convinsi il mio fidanzato ad accompagnarmi; lui che era temerario e paziente accettò di percorrere ben 300 km in un giorno ripartendo la notte stessa. Arrivammo appena in tempo per l’inizio dello spettacolo. Ricordo tutto di quella sera: l’entrata del piccolo teatro, il silenzio che aleggiava nel buio della sala. Lo rivedo in scena a pochi metri da me, celebrare un uomo e la sua morte, in un rito pagano di epifanie dionisiache e apollinee insieme, un teatro di un’umanità straordinaria in cui ogni elemento soggettivo, finanche biografico diventava archetipo. Ci ferì, mi ferì profondamente. Tutto di quella messinscena era “necessario”. Per me César Brie è uno di quegli artisti che generano cortocircuiti e spaesamenti. L’ho cercato e gli ho scritto nel mese di maggio, mentre era chiuso in un teatro milanese dove si è ritrovato ad abitare nel periodo della quarantena e gli ho chiesto di rispondere ad alcune mie domande. Ha accettato e con estrema generosità ha risposto a quelle che non saranno l’ennesimo diario di una pandemia (il rischio in questo tempo è quello di un’ipertrofia diaristica). A dialogare con un maestro ci si sente sempre inadeguati, specie se questo è sul mestiere, perché è evidente che la pratica risulti essere sempre intraducibile a parole. È molto probabile che le mie domande siano state ingenue, finanche banali però la sua intelligenza sapiente le ha rispettate reagendovi con pazienza. César ci restituisce ancor di più il ritratto di un autentico maestro.

“Scolpire il tempo”, dare forma all’invisibile cosa vuol dire concretamente per un attore?

Non so cosa significhi per un attore. So cosa intendo io quando parlo di dare forma all’invisibile. Non riesco più a parlare in generale di concetti sull’attore, ma soltanto posso parlare della mia esperienza. Quindi, nessuno dovrebbe dedurre una legge generale da ciò che propongo, che è solo valido per me e utile a me.  Il nome delle cose spesso non coincide con le cose nominate ed è soltanto la nostra esperienza empirica come attori, a chiarirci cosa intendiamo quando diamo quel nome. L’arte dell’attore si trasmette in modo empirico, da maestro ad allievo, non attraverso i manuali, e in realtà sono gli allievi che traducono nel proprio corpo gli insegnamenti dei loro maestri e colleghi. Un attore impara quando tutto il suo essere assorbe un insegnamento.  Spesso la volontà di imparare non c’entra con questo, ma la attenzione, la dedizione, l’esercizio quotidiano. Ora, dare forma all’invisibile per me è un atteggiamento poetico dell’attore e del regista, cioè degli artisti impegnati in una ricerca, per cercare sulla scena azioni, metafore e immagini che servano non ad illustrare con le azioni un certo testo, ma che si collocano come contrappunto, oppure come alterità, oppure come frammento (di azione o situazione) da essere completato dal testo. Scritto così, sembra astruso e difficile. Praticato come esercizio sulla scena, sviluppa negli attori una capacità poetica, una certa dimestichezza con la poesia scenica (fatta sempre di composizione di elementi, non di testo). Quindi, nel processo di creazione, cerco di abituare gli attori a pensare la scena come un luogo che può illuminarci, sorprenderci, stupirci, creando azioni ed immagini che unite al testo (oppure anche da sole) diventino una folgorazione scenica.

César Brie, nello spettacolo “ERO”. Foto di Paolo Porto

Sei rimasto chiuso in un teatro per più di due mesi, cosa è cambiato del tuo modo di vedere il teatro in questo tempo di sospensione?

L’unica cosa che mi è mancata nella pandemia è stato il partner, cioè il compagno di lavoro, ma neanche tanto. Ho scritto in stretto contatto con un amico, per me un maestro, filosofo e studioso del teatro. Abbiamo scritto a quattro mani una commediola e dopo due mesi abbiamo deciso di provarla. Lui vive vicino, qui, veniva in macchina. Ambedue sapevamo di essere sani (ci eravamo molto frequentati nel periodo pre-pandemia) e quindi abbiamo cominciato a provare. Io avevo fatto le scene provvisorie, avevo messo le luci e gli oggetti. Siamo tutti e due anziani, forse lui più malandato di me, ma abbiamo iniziato a provare e lo stiamo ancora facendo.  Per il resto, a me non è cambiato molto. Sono tornato ad avere tempo, cosa essenziale nella ricerca teatrale. Poi, il fatto di non sapere chi produrrà lo spettacolo e se mai potremo rappresentarlo, fa parte della mia abitudine. Abbandonato da chi un tempo mi sosteneva e credeva nel mio lavoro (mi riferisco all’ERT Emilia Romagna Teatro) al cui nuovo direttore il mio lavoro non interessa, obbligato sempre a fare i progetti degli altri, non trovando nessuno che mi proponga di produrre un lavoro che io desidero fare, ma invece, ricevendo tante proposte per fare lavori che loro vogliono fare, la pandemia ha bloccato tutti, tranne me, che sono abituato a lavorare senza produttori, in povertà e libertà.  Così il mio lavoro procede, il testo è stato scritto e ora lo stiamo sottoponendo alla feroce critica della scena, che lo libera di tutte le scorie verbose e lo rende essenziale.

Che tipo di teatri ci saranno secondo te dopo tutto questo? Un’immagine.

Non cambierà nulla. Saremo più poveri e marginali. Molti si sono votati al teatro in internet, dimostrando in realtà che vorrebbero fare cinema, o video, e che la specificità della scena e del rapporto pubblico -attore non li toccava molto. Beati loro. Altri, i veri artisti di teatro, pur dimostrando sempre curiosità per le forme interdisciplinari, sperano (speriamo) che si possa tornare a quel lavoro che l’essere umano esercita da che esiste qualcosa che chiamiamo cultura.  Qualcuno racconta e agisce di fronte agli altri, creando un mondo che interroga i presenti e che non esisteva prima della sua rappresentazione.

Mi ha colpito una tua riflessione nella quale crei un parallelismo tra la fame e la cultura; da quel che ho capito la seconda non può essere assunta come urgenza se non abitata dalla stessa forza che implica l’aver fame: «Antes de llegar a la cultura, considero que el mundo tiene hambre, y que no se preocupa por la cultura, y que artificialmente queremos llevar a la cultura pensamientos que sólo están centrados en el hambre.
No me parece qué lo más urgente sea defender una cultura cuya existencia jamás ha salvado a un hombre de la preocupación de vivir mejor o de tener hambre, sino extraer de aquello que llamamos cultura las ideas cuya fuerza viviente es idéntica a la fuerza del hambre.
Sobre todo tenemos necesidad de vivir y de creer en aquello que nos hace vivir y de creer que alguna cosa que nos hace vivir… y aquello que sale del interior misterioso de nosotros mismos no debe recaer perpetuamente sobre nosotros mismos, en una preocupación groseramente digestiva. Quiero decir que si a todos nos importa comer de manera inmediata, más nos importa aún no derrochar en la preocupación de comer de inmediato nuestra simple fuerza de tener hambre».  Potresti ritornare su questo punto? 

Ho citato una frase di Artaud, che ogni uomo di teatro dovrebbe sapere a memoria. Rileggete o leggete se non lo avete mai fatto, Il teatro e il suo doppio di Antonin Artaud.  Quest’uomo, questo visionario, filosofo e poeta, sostiene che si deve fare cultura con la forza e l’urgenza con cui ci si muove quando abbiamo fame. Ma questo non si può insegnare. O si ha fame e ci si muove in conseguenza o si è addormentati dal confort e gli svaghi, e si vivacchia.

Hai vissuto diverse esperienze di teatro di gruppo, Farfa, l’Odin Teatret, poi la creazione del Teatro de los Andes. Cosa ti manca, se ti manca, di quel modo di fare teatro? 

Gli artisti cercano sempre forme organizzative che permettono loro di sviluppare le loro ricerche. I gruppi teatrali sono una di queste. Altri artisti creano invece dei clan, persone che non sempre lavorano insieme ma che spesso si incontrano. Tutte queste forme sono lontane dalle strutture pubbliche in cui gli artisti vengono assunti per un progetto, e basta. A volte accade che una struttura pubblica sostenga per molto tempo un gruppo di artisti, come fu il caso di Pina Bausch. Non difendo oggi i gruppi rispetto ai clan, o rispetto gli artisti solitari che si trovano a collaborare. Ognuno trova la forma organizzativa in cui il suo lavoro può esprimersi. Credo però che dietro le grandi opere teatrali ci siano sempre dei visionari che hanno sostenuto un modo di lavorare e lo hanno portato alle sue estreme conseguenze. Per me, l’esperienza del Teatro de los Andes è stata la cosa più importante che sono riuscito a realizzare, non per essere un gruppo, ma perché avevamo una disciplina creativa, un rigore nella ricerca e ci davamo il tempo per farla. Ironicamente, noi, senza quasi stipendio, in condizioni di povertà materiale riuscivamo a dedicare per mesi il nostro tempo al lavoro teatrale di sperimentazione, ricerca, montaggio e musica. Così venivano fuori opere che poi suscitavano l’attenzione per il proprio rigore e la sconvolgente bellezza. Noi, senza risorse economiche, in Bolivia, in una situazione di oasi culturale nel nostro modo di lavorare, riuscivamo a dedicare tutto il tempo necessario a una ricerca teatrale, e il risultato ci dava ragione: il tempo speso valeva la pena. Avevamo tempo, motivazione, rigore, e una condizione di povertà che non era di miseria, diciamo di austerità. Non era l’idea di gruppo che ci sosteneva. Era il nostro rigore creativo. Dopo 10 anni ho proposto al gruppo di scioglierci, di continuare a lavorare nello spazio che avevamo ma di sceglierci di nuovo sulla base delle stime, delle curiosità, dei nuovi progetti, in modo che il gruppo non trascinasse i fardelli dell’abitudine, dello spegnersi delle curiosità reciproche, e che nuove persone invadessero le nostre strade creative dandoci inesperte ma vive nuove voci. Il gruppo non accettò la mia proposta. Nove anni dopo ci siamo separati male, litigando, atomizzandoci. Il nome è rimasto a chi è rimasto nel luogo. Io ho preso una strada che ancora oggi non ha un indirizzo lineare. Sempre facendo quello che desideravo, ma non come lo facevo allora. Quel modo di lavorare che avevo in Bolivia, è in realtà il mio modo di lavorare.

César Brie, nello spettacolo “Il mare in tasca” di César Brie.

Esisteva negli anni ‘70 e poi negli anni ’80 tutta una geografia, tutto un mondo, un pensiero, che si ramificava, una rete di relazioni fiorita per contrasto alla solitudine, è la fotografia di un‘epoca scomparsa, dove, grazie alla presenza di “strane figure”, artisti giovani ed emergenti trovavano uno spazio. Erano critici, studiosi, operatori, organizzatori, figure irrinunciabili per alcuni, che li sostennero e li accompagnarono specie e soprattutto in termini ideologici. Oggi è tutto cambiato.

È una tua visione, non so cosa dire. A me gli interlocutori non mi sono mai mancati. Io ho combattuto le sette, sia estetiche, che sociali, che organizzative. Credo negli incontri tra artisti, credo nei cortocircuiti che provocano opere creative, credo che dobbiamo avere etiche comuni ma estetiche differenti. Da molto tempo dico che amo il teatro diverso dal mio e che faccio il teatro che posso. Ho subito in prima persona l’ingratitudine, anche un po’ di violenza quando ho fatto dei documentari, ma sono rimasto fedele a questo pensiero. In Argentina tutti mi invitavano, ma quando ci sono arrivato, le porte si sono chiuse. Se sei un ospite tutti ti amano, se arrivi a installarti, diventi un rivale. Così, pochi artisti tra quelli che ammiro sono venuti a vedere il mio lavoro, mentre io vado a vedere tutto quello che gli altri fanno. Non sono così insicuro da dovermi paragonare. Amo quello che gli altri fanno e seguo la mia strada. E continuerò a farlo sino alla fine. Io so che l’invidia è un sentimento radicato e muto, che determina molte azioni e blocca molte possibilità. Negli ultimi anni, non ho mai ricevuto un invito o mi è stata accettata una proposta in un teatro con risorse finanziarie del mio paese. Pazienza, continuo a fare il mio lavoro in precarietà, come ho sempre fatto. In Italia, ho ricevuto l’aiuto paziente di Campo Teatrale a Milano e di Arti e Spettacolo dell’Aquila, ogni tanto il Teatro dell’Elfo si ricorda di me e mi aiuta generosamente. L’ERT Emilia Romagna Teatro mi ha bandito dal suo circolo e oggi lavoro dove posso e vengo invitato da piccole realtà che amo e con le quali collaboro. Faccio seminari, alcuni in strutture prestigiose come l’Accademia dei Filodrammatici o la Scuola Galante Garrone, altri dove capita, in piccole realtà oneste e motivate.

Il gatto e la volpe è l’opera nata nel silenzio di un teatro solitario dal tuo dialogo con Antonio Attisani, hai ipotizzato qualora le sale fossero rimaste chiuse un radioteatro che potrebbe essere “ascoltato”, sentito piuttosto che visto, e hai ipotizzato due finali: uno per il teatro e uno per il cinema.
In quello teatrale il gatto e la volpe dopo aver discusso su ogni aspetto della vita e del mestiere vanno via sposandosi, uscendo dal palcoscenico si separano per sempre, mentre nel film sia il gatto che la volpe hanno invece i sintomi del virus e vengono portati via dall’autombulanza per andare in un luogo dal quale non torneranno mai.  Perché?

Erano idee. Se non si fossero riaperti i teatri, ne avremmo fatto un radio dramma.
Se si fosse fatto un film, il mezzo cinematografico avrebbe permesso alla realtà della Pandemia di entrare nella sceneggiatura in una forma molto diversa da quella teatrale.  Questo è il motivo. Devo ancora scrivere la sceneggiatura del film, ma andrei in quella direzione. Ora sto provando la versione teatrale. Abbiamo già montato tre scene. Il lavoro sulla scena ha asciugato il testo e reso tutto molto più asciutto e potente. Lavoriamo con Antonio, che in gioventù è stato attore, quattro ore al giorno. Andiamo lenti ma procediamo. Non sappiamo se riusciremo a portarlo in scena. Ma sappiamo che questo lavoro di messinscena interrogherà il testo, lo pulirà e lo lascerà pronto per essere poi letto, rappresentato o pubblicato. Il lavoro è affascinante, lunghissimo e sono felice di farlo.

I tuoi maestri. Quanto è importante per te la trasmissione?  

La mia maestra di teatro, la mia vera maestra, si chiama Iben Nagel Rasmussen. Lei mi ha insegnato a comporre con il corpo, mi ha aperto gli occhi, ha messo le briglie al cavallo impazzito che ero da giovane e mi ha guidato. Oggi, sono distante dal suo modo di lavorare ma ho una venerazione assoluta per l’artista e la donna. L’altro mio maestro nel pensiero è stato Attisani, che mi ha insegnato a riflettere senza volermi insegnare nulla, e da giovanissimo mi ha dato, come dirlo?… Un’attrezzatura etica con la quale scegliere la mia strada. Poi in Bolivia, una coppia di antropologi, Gabriel Martinez e Veronica Cereceda, mi hanno aperto gli occhi sul mondo andino. E infine, un amico col quale è finita male e che, essendo morto non può difendersi dalla mia memoria, Gianpaolo Nalli, mi ha aiutato in modo straordinario e disinteressato a creare il Teatro de los Andes. La trasmissione è importante, però non è il maestro che sceglie l’allievo, ma è l’allievo che incontra e prende dal maestro. Spesso poi, deve litigare col maestro per fare la sua propria strada.

Iben Nagel Rasmussen e César Brie nello spettacolo “Matrimonio con Dio”. Foto di Tony D’Urso

César Miguel Brie Gowland è nato il 3 maggio 1954 a Buenos Aires (Argentina). È attore, drammaturgo, poeta, regista e pedagogo. Ha lasciato l’Argentina in piena dittatura militare per trasferirsi in Italia, prendendo parte per un periodo al gruppo Comuna Baires di Renzo Casali, che lascerà nel 1975. Crea il collettivo Tupac Amaru. Tra i suoi spettacoli ricordiamo: A ​Rincorrere il SoleE Tentavano infine di scappare, e Ehi, in collaborazione con Danio Manfredini. Dal 1981 al 1990 lavora insieme a Iben Nagel Rasmussen nel Gruppo Farfa e poi nell’Odin Teatret di Danimarca nelle vesti di autore, regista e attore. Realizza: Matrimonio con Dio e Talabot con la regia di Eugenio Barba, dirige e scrive Il Paese di Nod. Nel 1991, fonda in Bolivia il Teatro de los Andes con il quale ha creato spettacoli straordinari: Romeo e Giulietta, Ubu in Bolivia, I Sandali del Tempo, Solo gli ingenui muoiono d’amore, Dentro un sole giallo, Fragile, Otra vez Marcelo, l’Iliade e L’Odissea. Con gli attori del Teatro Setaccio crea Il cielo degli altri,  Zio Vanja di Anton Cechov di cui ha curato la regia con Isadora Angelini; Todos los ausentes, realizzato a Santiago del Cile con l’attore Hector Noguera del Teatro Camino; Il mare in tasca (produzione César Brie-Arti e Spettacolo) e con il suo nuovo monologo Albero senza ombra (produzione Fondazione Pontedera Teatro con la collaborazione organizzativa di Arti e Spettacolo); Karamazov, del 2012, prodotto dall’ERT, è stato nominato per il premio UBU. Le sue ultime produzioni sono: Il Vecchio Principe, InDolore Viva l’Italia con un testo di Roberto Scarpetti.
César Brie è autore di diversi volumi tra i quali: César Brie e il Teatro de los Andes, a cura di Fernando Marchiori, Ubulibri; Dentro un Sole GialloMemorie da un terremoto, Titivillus; Il Cielo degli Altri e L’Iliade del Teatro de los Andes, editi entrambi da Titivillus tutti a cura di Fernando Marchiori.  In lingua spagnola: La vocación, Plural.
Per chi volesse approfondire ci sono due documentari sul suo lavoro: ​Dalle Ande agli Appennini di Giancarlo Gentilucci e La Hacienda del Teatro di Reinhardt Manz.