Coronavirus, D’Ambrosi: «Mi mancano i miei mattacchioni» Intervista a Dario D’Ambrosi di Patrizia Vitrugno

Sono due mesi che non vede i suoi “mattacchioni”, Dario D’Ambrosi. Nel tempo infinito della quarantena a cui tutti noi siamo stati costretti, il suo, di tempo, diviene ancora più lungo. Dal 1992 il Teatro Patologico, di cui D’Ambrosi è fondatore e ideatore, oltre che anima e cuore, porta avanti un lavoro unico e universale: stabilire un contatto tra il teatro e la malattia mentale. Un percorso fatto di passione e dedizione che ha permesso a moltissime famiglie di ritrovare la serenità. Oggi però, con lo slogan “Il Patologico rimane a casa ma le nostre emozioni non si fermano mai…” anche questa realtà si è dovuta fermare con tutte le conseguenze immaginabili non solo per i disabili ma anche per le loro famiglie.

Qual è la situazione del Teatro Patologico?

È difficilissima e sono molto preoccupato. Bisogna che le autorità capiscano che non siamo un teatro di produzione, di allestimento, ma siamo essenzialmente un teatro di terapia. Qui noi facciamo un lavoro assolutamente particolare con i nostri ragazzi e attraverso percorsi studiati e approfonditi li portiamo a ritrovare quelle condizioni emotive tali da riuscire a gestire gradualmente le loro patologie senza l’uso degli psicofarmaci. Sospendendo questo percorso è chiaro che il rischio di tornare a essere dipendenti dagli psicofarmaci è altissimo. E questo mi dispiacerebbe molto perché brucerebbe tutto il lavoro enorme che ogni giorno facciamo, cercando di far ritrovare loro autostima, cercando di aiutarli ad alzare la testa e a guardare in faccia le persone, a guardarle negli occhi, ad avere la forza di confrontarsi con le proprie emozioni.

Qual è la tua paura più grande?

Non sapere quando torneremo perché se siamo riconosciuti solo come teatro allora dubito che riusciremo a riaprire prima di gennaio 2021, e sono sicuro che in questi 8 mesi tutti i ragazzi torneranno nel baratro degli psicofarmaci.

In che modo sei in contatto con i tuoi ragazzi?

A distanza cerco di dare delle indicazioni, ma il lavoro che porto avanti con loro è diretto, fisico. Devono sentire questa fiducia, questo amore, questa passione e cosa vuoi comunicare attraverso internet e lo schermo di un computer?

Foto di Federica Di Benedetto

Quali sono le preoccupazioni da parte dei genitori?

Soprattutto chi vive con un ragazzo autistico, con una patologia grave o gravissima, deve affrontare un lavoro faticosissimo e di una difficoltà spaventosa perciò da parte loro c’è molta preoccupazione e paura. E anche molta ansia perché poi c’è sempre l’incertezza relativa alla durata di questo periodo. Quanto potranno reggere i loro ragazzi? Che tipo di reazione potranno avere? Per esempio ricordo che quando saltò il Festival che avremmo dovuto fare al Teatro Eliseo di Roma, molti di loro ebbero delle reazioni molto violente, ci fu chi si spaccò la testa contro un vetro, chi diede pugni contro il muro.

Oggi si sono presentati casi di reazioni così violente?

Per ora per fortuna i genitori riescono a gestirli ma se non riusciremo a riaprire nel breve periodo temo che rischieremo di dover chiamare i carabinieri, le forze dell’ordine. Sono ragazzi che hanno bisogno di aiuto ma mi sembra che non importi niente a nessuno.

Cosa pensi dell’ultimo decreto (DPCM 26 aprile 2020)?

Grande delusione. Ho provato a scrivere a molte trasmissioni televisive anche di inchiesta come quella di Massimo Giletti su La7 ma non ho ricevuto risposte. Come troppo spesso accade, il disabile arriva sempre dopo tutto il resto quando invece dovremmo considerare il fatto che i disabili in Italia sono un quinto della nostra popolazione.

Qual è la ricetta da proporre?

Potremmo ricominciare a riaprire le nostre porte non dico a tutti i nostri ragazzi assieme ma magari a 4-5 alla volta, rispettando le distanze e con le dovute accortezze. In questo modo potremmo riavviare con i più gravi tra loro quel percorso di lavoro sulla patologia e sull’emotività iniziato a gennaio ma che è stato bruscamente interrotto. Da quando si avvia la terapia è necessario più o meno un mese, un mese e mezzo per capire come può andare empaticamente con il docente. E proprio nel momento in cui è stato sospeso tutto loro avrebbero dovuto iniziare a mettere in pratica questo rapporto. Poi gradualmente potremmo continuare tornando a un discorso di teatroterapia che può aiutare i nostri ragazzi ma che aiuta in questo caso soprattutto le famiglie.

Foto di Federica Di Benedetto

Cosa consigli ai tuoi ragazzi in questo periodo di lontananza?

Io dico sempre che il lavoro dell’attore è quello di preparare un bagaglio, uno zaino, una borsa dei ferri dentro cui mettere tutto, tutte le forze e le energie, la voce, il movimento, le tecniche di rilassamento. Ecco, adesso è il momento di aprire quello zaino e di impossessarsi di tutto quel materiale che sono stati straordinariamente capaci di mettere via con molta cura. È quello, e solo quello, il loro psicofarmaco adesso. Mi mancano i miei “mattacchioni”. Spero di poterli riabbracciare presto.