ESERCIZI DI MEMORIA > Scene a cura del gruppo di lavoro Esercizi di memoria

Fase dell’allestimento di “The Yellow Methuselah” del Living Theatre (Lione, 1982). Riproduzione riservata © Fondo Living Theatre, Biblioteca di Area delle Arti - Università degli studi Roma Tre

Nel suo esaurirsi irreversibilmente nell’attimo presente del palcoscenico, nel momento stesso in cui si manifesta e poi mai più, il teatro rivendica la sua dimensione all’interno del ricordo. Dopo Contagio, Apprendere e Crocevia, questa è la quarta sfida di Esercizi di memoria: riscoprire le Scene conservate dentro gli occhi di chi può dire «Io ero lì».


Odissea negli spazi
 

Alessandra Vanzi, Giorgio Barberio Corsetti e Marco Solari in “Turchese”, gennaio 1981.
Foto di Angelo Raffaele Turetta

Il teatro de La Gaia Scienza riverbera spesso dal corpo a corpo di Marco Solari e dei suoi compagni con il genius loci romano. Così il Beat 72, Spazio Zero e Villa Borghese diventano, ai loro occhi, contesti in cui perdersi, incantarsi, scrivere e riscrivere la propria storia artistica. Una cartografia di Roma che si sovrappone e al tempo stesso si discosta da quella disegnata durante la precedente tappa di Esercizi di memoria.

La Gaia Scienza ha attraversato quasi un decennio, dal 1975 al 1984. La rivolta degli oggetti e Cuori strappati, il primo e l’ultimo spettacolo realizzati. La rivolta degli oggetti segna la nostra ricerca e struttura mentale di lavoro non solo come gruppo ma, anche dopo, quando ci siamo sciolti. Un aspetto per noi generativo era lo spazio. La rivolta lo facemmo al Beat 72. C’era già una gradinata e si recitava sul cemento della cantina. Gli spettatori messi sulla gradinata e su delle panche nella parte opposta. Noi ci muovevamo su due fronti e usavamo molto la lateralità. Era proprio la scoperta delle pareti, appoggiarsi ai muri e abbattere l’idea del centro e della sua predominanza. La stessa frase è diversa se detta in un angolo, lungo la parete o con la schiena sulla porta. Dopo diversi anni al Beat, lo sentivamo esaurito come spazio, troppo stretto, avevamo voglia di dilatare lo spazio, è sempre stata un’esigenza de La Gaia Scienza quella di provocare uno sfondamento. Così, nel 1981, andammo allo Spazio Zero di Lisi Natoli (1). Essendo un tendone da circo, aveva una struttura circolare. Lì inventammo per Turchese un allestimento basato proprio su quel concetto di circolarità. Allora l’idea era lo zero, il vuoto, stiamo parlando di figure circolari che in qualche modo ci suggeriva lo spazio stesso. Dopo due anni passati a Spazio Zero sentimmo l’esigenza di fare noi uno spazio. D’accordo con Ulisse Benedetti (2) e Renato Nicolini (3) individuammo un posto dove costruire un capannone nel cuore di Villa Borghese, vicino al parco dei cani, non lontano dalla Galleria Borghese, con grande scandalo di alcuni. Era una struttura assolutamente temporanea, fatta di tubi Innocenti e tela, poi l’anno dopo ci misero pure dei bandoni di metallo. È il 1982, a fine maggio debutta Gli insetti preferiscono le ortiche, il nostro penultimo lavoro. Ci trovavamo a costruire questo spettacolo, nel periodo invernale, mentre gli operai della Innocenti montavano la struttura. Provavamo sull’erba, si lavorava lì dalla mattina alla sera, fino a tardi, sentendo i rumori degli animali intorno a noi, quelli dello zoo, delle coppiette e di tutto l’entourage di Villa Borghese che andava in giro di notte. Gli insetti si costruì su quella fisicità, sul rapporto tra il naturale e l’artificiale dato dal luogo. Non l’avevamo deciso prima.

Andrea Scappa

Tra forma e contenuti 

Fiorenza Menni in “Boia”, un intervento performativo ideato per “Bologna al muro”, giornata di eventi artistici e musicali del settembre 2011.
Foto di Fotokune

Gli spettacoli più significativi del Teatrino Clandestino rappresentano il punto d’arrivo di un percorso personale per Fiorenza Menni. Un importante momento di riflessione e di maturazione artistica che creerà una rottura tra lei e Pietro Babina e la fine del loro sodalizio professionale.

Mi avevate chiesto di portare degli oggetti, ma il secondo oggetto che avrei voluto portare era intrasportabile. Si tratta della gabbia di ferro dell’Idealista magico. Uno spettacolo del ’97, forse il primo del Teatrino Clandestino, dove mi sono sentita perfettamente a mio agio. Questo ferro lo abbiamo scelto, tagliato, dipinto e saldato in maniera artigianale, per costruire una grande macchina elettrostatica, che creava delle scintille. Per molti mesi abbiamo meditato su quello che volevamo raccontare prima di arrivare alla ricostruzione di un gabinetto scientifico, ambientato nel 1865, abitato da tre figure. Un filosofo scienziato, Pietro, perché si riferisce a un’epoca in cui lo scienziato e il filosofo erano la stessa cosa. Un narratore, Manuel, che raccontava la storia dell’elettricità, ma di un secolo precedente, quando si sono fatte le scoperte più importanti sull’elettricità. E una figura muta, una maga, che si aggirava tra di loro, come se fosse la loro coscienza, raccogliendo i risultati del percorso scientifico. Era il momento in cui i gruppi più vicini a noi si lanciavano in un immaginario cyber, mi riferisco ai Motus, Masque, Fanny & Alexander: era molto divertente rompere questa linea. La loro era un’ipertecnologia “povera”, perché di fatto nessuno aveva i mezzi per fare quelle cose. In Italia, un teatro di questo tipo, non è mai stato prodotto. Lo facevano in Francia, in Germania, loro sì che avevano i mezzi. Noi dovevamo inventarci le cose più incredibili per riuscire a stare in questa logica. Con Teatrino Clandestino abbiamo fatto spettacoli ritenuti molto importanti. Un passaggio a livello drammaturgico fondamentale è stata la riscrittura di Casa di bambola, dove abbiamo avuto il coraggio di sostenere che dovevamo buttare via tutto del testo per cogliere l’intuizione geniale che stava alla base dell’opera. Era un periodo in cui io e Pietro eravamo in crisi, quindi, ho scritto quello che ci dicevamo dentro casa. Funzionò. Casa di bambola era un progetto pensato per una chiamata di Giorgio Barberio Corsetti quando era direttore alla Biennale. Chiamò noi, i Motus, Fanny & Alexander e Masque per fare un progetto insieme. Quando ci fece questa proposta dicemmo: «Sì, ma a una condizione, che ognuno fa il suo lavoro e che lo facciamo a Interzona». (4). Acconsentì. Scegliemmo la cupola centrale, con questa grandissima rotaia, dove campeggiava un grande schermo che ritraeva i nostri primi piani, mentre eravamo su un carrellino mobile a 50-60 metri che avanzava. In quel lavoro penso di aver creato la pulizia estrema. Una lezione che ho appreso studiando Rina Morelli. Dopo Ibsen, abbiamo iniziato a lavorare su Medea, su Madre Assassina, lo spettacolo forse più ricordato del Teatrino Clandestino. In quel momento io e Pietro ci eravamo già separati. Ne nacque una discussione sui ruoli e sui contenuti. Non mi divertivo più a interpretare ruoli che non avessero a che fare con la realtà, che non avessero una traccia del mio vissuto.

Elisa Callia D’Iddio e Massimo Giardino

Inarrestabile sperimentazione 

Una scena di “Calore” (1982) nell’allestimento del 2012.
Foto di Marco Caselli Nirman

Il lavoro di Enzo Cosimi è attraversato, da sempre, dall’esplorazione della sfera sessuale. Sesso e desiderio sono segni, schermi, attraverso cui osservare il mondo e le sue continue mutazioni che, incessantemente, sono ridefinite nel linguaggio contemporaneo. La sessualità e la nudità, oggi abbondantemente sdoganati, negli anni Ottanta erano un tabù, il mondo della danza non ne era immune e alcuni progetti non vedranno mai la luce.

Calore (1982) è stata la prima sfida e volevo affrontarla con i miei amici. Corpi liberi di persone comuni al servizio di una scrittura di danza potente e di un lavoro visionario in cui s’intrecciavano immagini, colori e movimenti. L’opera venne rifiutata in blocco dal mondo della danza che non riuscì a ritrovarvi i canoni del balletto e della coreografia: la fisicità e l’estetica non erano costruite convenzionalmente. Richiedere a non danzatori di “danzare” aveva creato, inevitabilmente, una sorta di schizofrenia all’interno del movimento stesso scardinando anche il rapporto prestabilito tra musica e danza. Calore s’indirizzava verso quell’architettura coreografica in cui la scrittura dei corpi emergeva in tutto il suo significato aprendo un varco alla cosiddetta “danza d’autore”. Dopo ci furono protagonisti come Virgilio Sieni e Sosta Palmizi insieme all’interesse di una nuova critica – tutta al femminile –, rappresentata da Leonetta Bentivoglio, Marinella Guatterini e Simona Bertozzi, solo per citarne alcune. Prima del suo debutto c’erano stati lavori come Tango Glaciale di Mario Martone, Punto di Rottura e Crollo Nervoso di Magazzini Criminali. Con Sciame (1987), che segna in modo decisivo il mio percorso artistico, ha inizio, invece, il viaggio attraverso il codice con danzatori professionisti: è il periodo d’oro delle grandi produzioni teatrali e dei Festival. Sciame è un primissimo matrimonio tra la danza e il video, è il lavoro che mi ha permesso di cambiare i registri della composizione: il corpo, il suono e il video coabitano. Poi, una mostra a Londra dedicata a Francis Bacon mi folgora: il lavoro che l’artista faceva sul nervo mi incuriosì. Bacon – Punizione per il ribelle (1999) è uno spettacolo che, per me, potrebbe ancora oggi rivelare, parlare. L’interesse per il nervo diventa   centrale,  cosi come gli incastri caotici, le iperboli, i percorsi non rettilinei che ho deciso di approfondire in Glitter in my tears – Agamennone (2019) dove, per la prima volta ho lavorato con il testo scritto che diventa determinante nella costruzione drammaturgica: uno stimolo per la mia inarrestabile sperimentazione e per una struttura architettonica giocata tra corpo e testo. Per tutto un decennio mi ero dedicato allo studio della figura dell’eroe, sfociato nella realizzazione di spettacoli come Il Pericolo della Felicità (1992). Alla fine degli anni Ottanta ho realizzato il solo Ballavo come uno Zombie (1984), nel quale duettavo con una tartaruga. Da alcuni anni lavoro per trilogie attraverso un viaggio nella diversità caratterizzato da lunghe interviste e da una difficile gestazione. Della Trilogia dell’anima fanno parte Fear Part (2015), Estasi (2016) e Thanks for hurting me (2017). Ode alla Bellezza, la seconda trilogia, comprende La bellezza vi stupirà (2015), Corpus Hominis (2016) e I love My sister (2018). Questi percorsi più che spettacoli sono per me delle esperienze.

Emanuela Bauco e Tiziano Di Muzio

Dalla parte di chi narra

Leo de Berardinis in “’O Zappatore” (1972) nella copertina de “La bellezza amara – Arte e vita di Leo de Berardinis” di G. Manzella, nella seconda edizione del 2010 per La casa Usher.

Se è vero che ogni teatro necessita di uno sguardo, allora le scene di Leo de Berardinis e Perla Peragallo trovarono negli occhi di Gianni Manzella un terreno incredibilmente fecondo e, nell’inchiostro de La bellezza amara, la traccia perfetta a testimoniare il loro passaggio.

Leo de Berardinis citava spesso una frase di Lester Young. Pare che invitato a eseguire un suo vecchio brano, il sassofonista americano avesse risposto: «Non posso: non suono più così, non sono più così». Questa era anche la posizione di Leo. «Riascoltarmi, rivedermi, mi ha sempre terrorizzato, perché non posso più intervenire», diceva. Leo non voleva rifare i suoi spettacoli, e questo, sulla memoria, ha un certo peso. Questo terrore di rivedersi fa sì che, in modo cosciente o meno, ci sia la spinta a lasciare dietro di sé il meno possibile. Perla, dal canto suo, era una presenza silenziosa, ma parlava scrivendo. Tutti gli spettacoli del periodo a Marigliano sono riportati in quaderni sui quali lei scriveva e disegnava: il testo, la scena, i dettagli a margine, le presenze e le assenze, e vignette buffe, tipo «Aggia taglià ‘a battut’ a Nunzio». Mai semplici trascrizioni, ma partiture con segni convenzionali per una futura memoria. Il primo spettacolo campano fu O Zappatore (1972), una sceneggiata napoletana. C’era sempre questo calarsi con tutta la loro vita dentro il teatro anche a costo di pagare un prestito personale molto forte. Poi iniziarono ad esplodere crisi prima, durante, e dopo gli spettacoli, i quali avevano solo una partitura di base su cui intervenire di sera in sera. Una volta lei iniziò a recitare un altro spettacolo, e lui rispose «Ah sì? Allora questo lo faccio tutto da solo». Il Teatro di Marigliano si scioglie, e non a caso ricominciano con Assoli (1977). Sulla scena lastre di polistirolo stese a dividere un mare, dei festoni di lampadine, e Leo e Perla insieme a un altro attore. Leo è vestito da guappo, Perla indossa una veste bianca. Recitano quasi tutto il tempo accovacciati. Il linguaggio ottenuto incrociando dialetti meridionali, racconta la storia di due intellettuali francesi che immaginano di costruire un ponte che arriva fino in America un mattone dopo l’altro. L’unico spettacolo realmente costruito è De Berardinis-Peragallo (1979): non a caso scompare il titolo. Si va a vedere loro, e può capitare di tutto. Inseriscono senza permesso anche un brano di Filumena Marturano: «Noi lo facciamo meglio di Eduardo». A quel punto la situazione tra di loro sta già diventando insostenibile. L’ultima volta che li ho visti insieme erano a Castel Porziano. Insieme sul palco, ma due mondi differenti. Leo legge Dante, accompagnato da musicisti, e c’è Perla come impazzita che va avanti e indietro. Si separano in quegli anni. A Leo i medici dicono: «O smetti di bere o muori». Decide di sopravvivere. Cambia città, accetta per la prima volta di lavorare su commissione con attori non suoi. Ricomincia un’altra volta, e di nuovo con Shakespeare, il suo riferimento culturale assoluto. C’è una cosa curiosa: solo dopo l’uscita de La bellezza amara (1993) ho trovato un film di Mario Carbone in cui Leo fa da spettatore alle riprese di un suo spettacolo insieme a Perla, commentandole, ironizzando. Aveva scoperto come imbrogliare al gioco del tempo, e nascosto le tracce.

Marta Marinelli

1) Spazio Zero, gestito dal regista e drammaturgo Lisi Natoli (Luigi Ferlazzo Natoli) e da sua moglie Silvana, è stato un tendone da circo, installato nel 1973 a via Galvani, proprio di fronte al Mattatoio, a Testaccio, dove, oltre a svolgersi gli spettacoli di Natoli, vengono invitati numerosi artisti, tra cui il gruppo americano Bread and Puppet, Laurie Anderson e Pina Baush, queste ultime due per la prima volta a Roma.
2) Ulisse Benedetti, rappresentante di profumi e animatore culturale, dirige il Beat 72, in solitaria nelle prime stagioni e insieme a Simone Carella in seguito.
3) Renato Nicolini, assessore alla cultura del comune di Roma dal 1976 al 1985, ideatore dell’Estate Romana, ha reimmaginato e plasmato il paesaggio artistico romano durante la sua stagione politica.
4) Interzona era un centro sociale a Verona, che aveva sede negli ex magazzini generali, uno dei gioielli architettonici dell’epoca fascista. Mussolini voleva far diventare Verona il frigorifero più grande d’Europa. Non è mai stato usato neanche un giorno.