Le serie ai tempi del Corona di Tommaso Cavani

Non avrei mai pensato che la domanda «dove sei?» potesse significare altro da una richiesta spaziale. Eppure, dopo aver visto la foto del computer che le avevo inviato mentre guardavo una serie, la mia amica Ilaria con il suo quesito non intendeva certo venire a conoscenza della mia ubicazione. Ferma nel buio che contornava lo schermo e si univa alle bande nere del quadro, l’immagine mi permise di unire l’ironia al fraintendimento: «al cinema», risposi. In questo periodo, dove altro avrei potuto essere, se non in casa? Al quinto episodio della seconda stagione, evidentemente.
Ma il nostro lieve malinteso, un «piccolo misunderstanding» scritto per la commedia degli equivoci, risponde invece a una faccenda serissima, più simile a un dramma: in queste settimane le coordinate di dove siamo nella vita coincidono davvero col numero dell’ultima puntata vista in streaming. Immobili in un cubicolo di camera, la forza motrice che manca al corpo si proietta nella testa, e i nostri percorsi nella finzione diventano la valvola di sfogo di un movimento fisico ormai assente. Ritrovandoci a indossare una maschera, ci trasformiamo nei personaggi di un immenso teatro mentale, e le nostre gambe attraversano la linea rossa del minutaggio per muoversi nel mondo illuminato dei telefilm. Siamo i caratteri sconvolti da una costrizione forzata, ma stavolta immaginarsi artefici di una magistrale rapina è l’unica chance per “uscire” dalla galera quotidiana. Siamo gli adolescenti frustrati di una scuola classista, intenti a superare gli ostacoli che ci facciano incontrare fuori dalla gabbia di famiglia. Patteggiamo per ladri o poliziotti, per chi rimane in casa o per chi passeggia, e non troviamo una sintesi fino alla fine della storia.

Rispecchiarsi nelle azioni di queste trame immaginifiche tradisce la ricerca di un contatto reale: riusciremo, come i nostri eroi, a stare insieme? La risposta immediata è in un trucco di magia: se gli spazi di quarantena e intrattenimento sono uniformati, tanto vale incontrarsi in quello virtuale. Ma se siamo tutti accomunati da un desiderio di relazione e di fuga, che si soddisfa dove la pulsione tangibile si traduce in fantasia di pixel, non sarà allora meglio vedersi nella zona d’intersezione tra queste due? Ovvero, quella che si spalanca quando premiamo play su una puntata. Solo in questa terra vogliamo riconoscerci come simili: non i rattrappiti paurosi e camminatori frustrati che siamo; non le figure stesse dello spettacolo che ci fa attori; ma gli spettatori pigri o attenti di un universo da spartire. La finestra aperta alla condivisione è su questa soglia, non del fare, ma del vedere e sentire. Qui dobbiamo darci appuntamento: nei viaggi che compiamo come visitatori di tanti mondi sotto il nostro controllo.

Nell’era cretacea della televisione, il tempo scandito dall’esterno veniva a nostro vantaggio, obbligandoci a vedere sempre il medesimo prodotto a cadenza settimanale. Ne avremmo poi parlato il giorno dopo col nostro amico a scuola. Quello che succede adesso è la scommessa del tempismo: si tenta, si spera, si promette di essere arrivati allo stesso punto, per poi parlare di quanto visto. All’inizio del lockdown, stavo pregustando il cameratismo del guardare una stagione insieme a qualcuno, magari dopo aver recuperato le precedenti in un tempo ristretto. Ma l’atmosfera dilatata di questi giorni non gioca a favore della velocità. Preso nel singhiozzante divagare tra questa e quell’altra distrazione, a guardare le serie sono lento. Pur essendoci una fermata comune, a volte i treni non s’incontrano: le andature sono diverse, e chi mastica piano non può sperare di competere a un’abbuffata. La questione si complica con le varie combinazioni del caso. C’è stata quella volta che, aspettando l’uscita di una nuova stagione, ho cominciato a guardare una serie già partita. Non solo non sono riuscito a mettermi in pari con questa, già avviata dai miei amici: il tempo necessario al nuovo impegno mi ha impedito di vedere anche la nuova in sincronia con loro. Le contraddizioni si moltiplicano. Vediamo una cosa insieme, ma così non avrò modo di recuperare le puntate precedenti di una serie in arrivo, che non potrò guardare con te, né con una seconda persona che mi aspettava. Nel frattempo, un terzo amico è rimasto deluso per un’altra che non ho visto con lui.

Se è vero che siamo anche tutti protagonisti delle serie, alle volte vorrei essere come quegli sceneggiatori capaci di intrecciare le trame più complicate, formulando acute combinazioni per far interagire personaggi altrimenti dispersi nel loro sviluppo isolato. Mi sono sempre chiesto come facessero a trovare soluzioni così funzionali e misurate negli incastri. Ho il sospetto che dipingano le facce degli attori su palle da biliardo, e ne tessano i collegamenti con fili di lana, in mirabolanti schemi a sfondo verde, come l’indice di un libro da scrivere. Allo stesso modo dovremmo connetterci anche noi, palle da biliardo su fili di lana. Calarci in situazioni impensate, dar vita a un incastro sempre nuovo, far vivere le intersezioni delle nostre storie, voltarci a raccontare il già visto per riscoprire la differenza tra la sigla e i titoli di coda. Saremmo più capaci di trovarci insieme, o di raccontarci com’è andata quando non potevamo farlo del tutto. Cosicché anche un improvviso colpo di stecca non sia tanto forte da mandarci in buca.