La sfida di Risurrezione tra Tolstoj e Alfano di Carlo Lei

Foto di Michele Monasta

Proprio in questi giorni a Firenze si presenta l’occasione di un incontro con qualcosa di inusuale. È vero, l’attenzione della critica, e un po’ per volta anche del pubblico, cresce nei confronti del laboratorio dell’opera italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento, ma Risurrezione di Franco Alfano (1904, poi rivista nel 1906 e nel 1909) che torna in teatro è qualcosa senz’altro di… rumoroso.
Opera sconosciuta? Quasi: opera trascurata, più che altro, dimenticata, raramente in scena negli ultimi cinquant’anni, ma già gloriosa di mille repliche, festeggiate nel 1951. Opera che, per qualche ragione, ha smesso di parlare al pubblico. Certo, ciò che è nuovo bisogna saperlo prendere, come ciò che è stato dimenticato, perché sempre ci dice qualcosa di noi, qualcosa che non abbiamo e potremmo conquistare, una nostra mancanza, o ci ricorda qualcosa che abbiamo perduto. Cioè bisogna capire presto da che verso conviene guardarlo, questo nuovo, per non restare a bocca asciutta, per non ritrovarcelo chiuso, non comunicativo. Il che poi non vuol dire non essere aperti alle sorprese, e quelle sì che sono l’amore vero.
Insomma, cosa possiamo chiedere a questa Risurrezione e cosa non possiamo pretendere?
Tanto per cominciare, proviamo a metterci nella situazione: anno 1904, siamo nell’Italia melodrammatica che fruga affannosa il panorama letterario tra rimaneggiamenti di successi di cassetta e tentazioni da Literaturoper, e smozzica musicalmente in Francia (Massenet, Debussy, Bizet), in Germania (Wagner e i suoi figli), in Russia addirittura (di lì a poco, come ci racconta Franca Cella, scenderà in Europa una piccola invasione di esecuzioni di musica russa autentica) per cercare la strada del futuro, per non morire di nostalgia verdiana. Pochi mesi prima Puccini era stato giapponese con Madama Butterfly; Mascagni tornava dall’Oriente (Iris è del 1898) italianissimo (Le Maschere, 1901) e conservatore (Amica, 1905); Giordano apriva la strada alle vie russe con Fedora (1898) e soprattutto con Siberia (1903), niente di meno che da Dostoevskij. In tutto ciò, Alfano, napoletano dal curriculum di studi e di esperienze internazionali (Germania e Francia, per alcuni anni si lasciava chiamare Frank) con la complicità del giornalista Cesare Hanau impugna la trascrizione per le scene di Henry Bataille dell’ultimo “grande romanzo” di Tolstoj, data a Parigi e a cui probabilmente assisté, e ne fa cavare un libretto in quattro atti, che occulta molti endecasillabi e settenari sotto il velo di “prosa ritmica”. Si trattava di avere a che fare con l’ultimo Tolstoj, il mistico pacifista oltranzista ostinato, duro, contadino e maestro di contadini della dacia di Jasnaja Poljana, in perenne attrito con la famiglia, da cui sarebbe fuggito dieci anni dopo, per morire nella solitudine della stazioncina di Astàpovo, con la compagna di una vita, Sof’ja Andrèevna, forzata ad aspettarne il trapasso dietro le tendine, tirate, della finestrella.
La storia di Risurrezione è quella di un’innocenza traviata, abbrutita a causa della leggerezza di un uomo, ma poi recuperata, innalzata su un piano di amore universale adatto alla rinascita anche del corruttore. Anzi, è proprio da lui che parte l’escatologia positiva in terra. Il giovane nobile Dimitri Nekludoff (le traslitterazioni sono d’epoca e francesizzanti), di passaggio per la casa in campagna della zia, possiede la servetta Katiusha, di lui innamorata, e poi se ne parte per la guerra di Crimea. Lei rimane incinta, e, invano tenta di ricordargli le sue promesse, o per lo meno il suo amore: una vita più leggera lo reclama, e lei è cacciata di casa dalla zia, inorridita dello scandalo. Passano dieci anni e casualmente Dimitri è giurato in un processo contro una donna accusata di omicidio: in quella donna piegata dalla vita riconosce l’irriconoscibile Katiusha, prostituta e prossima confinata. Da qui comincia il romanzo, che arretra in un flashback prima di proiettarsi in avanti: il senso di colpa opprime il giovane, che si palesa all’antica amante e le propone di sposarlo. Lei rifiuta e parte per la Siberia a scontare i suoi vent’anni: Nekludoff la seguirà, scoprirà nuovamente l’amore e, proprio in virtù di questo, lascerà la riconvertita Katiusha all’amore onesto e puro del prigioniero politico Simonson. Ma il messaggio tolstoiano è troppo ampio, troppo radicale, persino pericoloso – è il pensiero di uno che due anni dopo sarà scomunicato: non si tratta di una resurrezione nell’altra vita, ma in questa, di un rifiuto totale delle convenzioni civili e, soprattutto, clericali, per un impulso ascetico: insomma, occorre reindirizzare questa materia, sfoltirla, porgerla. E poi c’è bisogno che a sostenere il ruolo del protagonista sia una donna, non il “convertito” principe Dimitri.

Foto di Michele Monasta

Ed ecco la prima risposta alla domanda che ci facevamo, con la quale entrare nel nuovo Teatro del Maggio: cosa domandare a questa Risurrezione? La performance della protagonista, come prima cosa. Come in Tosca, in Adriana, in Fedora, appunto; come sarà per la Duse nella prosa e per Sarah Bernhardt nella danza. La diva, la forza trainante della trama e del sentimento. Ebbene, anche avendo nelle orecchie i miracoli di Magda Olivero (su Youtube si trova una sua registrazione del ruolo del 1971, spaventosa per aggressività e sottigliezza) non bisogna credere che Anne Sophie Duprels, protagonista di questa messinscena sia più timida. Più che altrove, è nel terzo atto che sfoga la sua carnalità abbrutita, la sua furia fisica, mentre nel primo è miracolosamente adolescenziale, persino un po’ frivoletta, alla maniera di una Manon Lescaut, protagonista di un’opera a cui molti hanno paragonato Risurrezione. Sulla scena Duprels è viva ed è al centro di tutto. Gli altri protagonisti, l’efficace (ma un po’ rozzo) Nekludoff di Matthew Vickers e l’applaudito Simonson di Leon Kim sono, bisogna ammetterlo, sostegni drammaturgici al suo sviluppo, alla sua presenza.
Seconda risposta: non bisogna chiedere a questa Risurrezione uno spettacolo illuminante, ma una corretta messa in scena. Ed è probabilmente ciò di cui c’era bisogno. La produzione, già andata in scena al meraviglioso Festival di Wexford, conta sulla regia di Rosetta Cucchi, in team con Tiziano Santi (scene), Claudia Pernigotti (costumi), Ginevra Lombardo (ripresa delle luci di D.M. Wood) ed è forte di un’impostazione solida, efficace, che riesce a rendere i colori degli atti in forma di temperatura, da misurare col termometro, dalla calda casa di campagna all’intirizzita muraglia siberiana. Paradossalmente è di questa solidità che arriva a soffrire, e potremmo dire che lo fa come gli edifici in cui si sono calcolati, per sicurezza, i carichi in eccesso: qui a essere eccessiva è la tendenza alla visibilità, la smaccatezza degli atteggiamenti. Non si tratta di un’esteriorità delle passioni, che il “verismo” giustificherebbe, né dell’evidenza resa necessaria da un palco grande come quello di un teatro d’opera, ma di un’emersione continua dei significati, che finiscono per essere didascalici: come le posizioni “scapigliate” di Dimitri nel primo atto, la sovrabbondanza di “segni” della gravidanza di Katiusha nel secondo (una vesticciola da bimbo tenuta in seno, un evidentissimo pancione), il ricorso a simbologie già viste (la bambina-clone immagine della purezza della protagonista, il taglio dei capelli come rinuncia alla vita civile) che si ritorce peraltro contro la stessa efficacia recitativa del soprano (nel finale dell’atto terzo, una magnifica immobilità è guastata dal “comando” registico di pettinarsi). Per non citare le altre superflue reificazioni sceniche, come nell’addio finale, in cui i due sono agli estremi opposti della ribalta, pur cantando un duetto d’amore: è vero che alla dichiarazione seguirà un addio, ma da libretto Katiusha chiede a Nekludoff che la si baci! Con tutto ciò, la regia offre il suo corretto binario allo svolgimento della trama, senza intemperanze e senza sperimentalismi, con qualche garbato richiamo a Emma Dante nel terzo atto.

Foto di Michele Monasta

Terza risposta: in Risurrezione va cercata l’orchestra, nei suoi pieni, nei suoi colori, nella sua inarrestabile mutevolezza di accenti e fraseggi, nelle rincorse, nelle lacerazioni, nelle furenti sospensioni. È scritto ovunque: «Alfano fine orchestratore» – e fu autore, fra l’altro, di un inedito Corso di strumentazione e di Appunti d’istrumentazione. Che si intenda principalmente l’Alfano da La leggenda di Sakùntala in giù è vero, ma anche in questa partitura l’orchestra è sfruttata in tutte le sezioni. Orchestra guidata con sicurezza e grande buon senso da Francesco Lanzillotta (qualche “sforzatura” in più, specie sul finale, qualche spudoratezza gliel’avremmo perdonata!) e, dal secondo atto in poi, con raggiunto equilibrio buca-palco.
Quarta e ultima risposta: in Risurrezione vanno cercati quel gesto, quella scelta di temi e di formule, quella narrazione cruda ma allo stesso tempo ripulita da schegge che potessero scalfire la facciata moralistica di quegli anni, quell’accento per i quali i nostri (bis)nonni hanno pianto dal cuore. Per i quali hanno chiamato le figlie Fedora o Wally. Va studiato cos’era quel “melodrammatico” che è passato in proverbio, e come riusciva, quand’era sorgivo, a spremere le lacrime; i fortissimi dell’orchestra, le dinamiche che frangono la linea del discorso, la voce che dal canto sa trasferirsi occasionalmente nel grido e nel soffio. Non è difficile: se si accetta la sfida di Risurrezione con questa curiosità storica ma anche affettiva, non si potrà non godere dell’esperienza.
E forse, non è escluso, il cuore balzerà inatteso in petto nel terzo atto, com’è successo a chi scrive, tra il grido della disperata galeotta: «Ah, perché non sono morta!», a cavalcioni dell’uomo che le ha distrutto la vita, e il fil di voce della nostalgia che gocciola sopra un piccolo ritratto di ciò che si era: «Ecco la casa, e il boschetto di tigli, e il giardino. Com’è grande! […] Guarda Katiusha, guarda, com’eri bella! Quanto tempo passò!…».

Foto di Michele Monasta

 

Risurrezione

di Franco Alfano
direttore Francesco Lanzillotta
regia Rosetta Cucchi
scene Tiziano Santi
costumi Claudia Pernigotti
luci Ginevra Lombardo su progetto di D.M. Wood
con Anne Sophie Duprels, Matthew Vickers, Leon Kim, Francesca Di Sauro, Ana Victoria Pitts, Romina Tomasoni.
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro del Coro Lorenzo Fratini.

Teatro del Maggio, Firenze, fino al 23 gennaio 2020.