I sultani della musica: Princes et vagabonds di Fabienne Le Houérou Intervista di Carolina Germini

Fabienne Le Houérou è un’intellettuale eclettica. È infatti storica, antropologa, regista e scrittrice. Inoltre è direttrice di ricerca al CNRS. Ha realizzato sette film etnografici e pubblicato tredici libri sull’esilio, i migranti e i rifugiati. Il tema centrale dei suoi lavori è quello di raccontare lo spostamento delle popolazioni più diseredate.
Con il suo ultimo documentario, Princes et vagabonds, uscito lo scorso novembre a Parigi e presentato al Cinéma Saint André des Arts, ci trascina nel deserto del Thar, in India, nello stato del Rajasthan, dove segue la vita della casta dei Manganiars, facendoci scoprire il loro universo musicale. Manganiar in indiano significa mendicante. Questo gruppo di musicisti viaggia continuamente, elemosinando e diffondendo la propria cultura. All’interno della loro casta si è formato un nuovo gruppo, quello dei Mirasi che, a differenza degli altri musicisti, non mendicano.
I Manganiars, pur essendo dei mendicanti, sono considerati a tutti gli effetti dei veri e propri sultani della musica. Anche l’ultimo libro di Fabienne Le Houérou, Noir étoile, è dedicato a raccontare la storia di questa casta. Rose, una giornalista, si trova in Rajasthan, per intervistare il maharaja di Jaisalmer. Durante il suo viaggio scopre la casta dei musicisti Manganiars. Attraverso la finzione letteraria, Fabienne Le Houérou ha potuto raccontare ciò che nel documentario non ha detto. È questo il potere della finzione: ti consente di descrivere una realtà senza provocare un uragano mediatico.

 

 

 

Quanto è durata la realizzazione del documentario?

L’ho girato in quattro anni. Ho iniziato le riprese nel 2015 e le ho finite nel 2018. Durante questo periodo sono tornata in Rajasthan una volta l’anno e contemporaneamente ho scritto il libro Noir étoile.

 

Anche Princes et vagabonds, come altri suoi lavori, affronta il tema della migrazione, ma forse in maniera meno evidente.

Sì. Qui è più forte il tema dell’esilio. I musicisti Manganiars sono “separati” dalla società a cui appartengono. Non c’è bisogno di attraversare una frontiera per fare l’esperienza dell’esilio. Esso non è solamente geografico. Si può essere esiliati anche nella propria famiglia. L’incompreso è l’esiliato per eccellenza.
In qualche modo lo siamo tutti. La casta dei Manganiars vive in maniera complessa questa condizione.
Da un lato vi è la frustrazione di essere esclusi dalla società, dall’altro vi è una sorta di fierezza – potremmo dire quasi una felicità dell’esilio – che è nata quando, a partire dal 1945, viaggiando, si sono resi conto che la loro musica rappresentasse una forte identità.

 

 

Le donne non compaiono quasi mai nelle sue riprese, eppure questa invisibilità rende la loro presenza più forte. Finiscono così per diventare loro le protagoniste?

Non ho potuto riprendere le donne perché non sono una giornalista e quindi non sono autorizzata a farlo.
L’unica donna che ho intervistato è stata la principessa che, appartenendo al rango più alto, ha accettato di rispondere alle mie domande. Quando riprendevo le bambine e le donne rallentavo la ripresa per poterle trattenere più a lungo. Le donne hanno un ruolo essenziale nella casta dei Manganiars, soprattutto sul piano musicale. Sono loro infatti a comporre la musica. Spesso i brani hanno come tema l’attesa, poiché li realizzano quando i mariti sono lontani. Ma non si tratta di un’attesa vuota. Le donne compongono e scrivono la musica in un quaderno comunitario, cantano e suonano ma soltanto in casa. Non possono esibirsi fuori. E questo, secondo Baksha, uno dei protagonisti del documentario, non cambierà mai. Le leggi ancestrali sono più forti di tutto. Ciò che colpisce è la purezza e la serenità di queste donne.

 

Potremmo dire che la musica nella casta dei Manganiars rappresenti il cuore della comunità?

Assolutamente sì. La musica è una vera e propria forma di educazione e di organizzazione della vita sociale. Per questo stare con la comunità dei Manganiars insegna molto. Non hanno delle partiture e tramandano la musica oralmente. I bambini non vanno a scuola e apprendono la musica a casa.

 

 

Il documentario si apre con l’immagine di una ragazza che si dispera durante la celebrazione del suo matrimonio. Come mai?

Sì, è disperata perché quando le donne si sposano sono costrette a lasciare le loro famiglie. Come avrai visto, anche il padre soffre, eppure gli uomini hanno come obiettivo principale quello di trovare marito alla propria figlia, ma nel momento in cui questo accade, è inevitabile il dolore del distacco.

 

Sono le donne di questa casta a inventare e a creare la musica, eppure gli uomini decidono per loro.  

Io credo che vi sia in questo caso più una complementarietà che una dominazione maschile. Esiste tra marito e moglie una sorta di compromesso. Dal momento che si tratta di matrimoni combinati, le donne scelgono all’interno di questa costrizione di non fingere. Dopo il matrimonio, il legame tra l’uomo e la donna è soltanto economico. Il marito ha il ruolo di occuparsi del sostentamento dei figli, ma al di là di questo vincolo non c’è alcun tipo di legame. I Manganiars passano lunghi periodi fuori per diffondere la loro musica, motivo per cui le donne restano spesso da sole.

 

Dopo questa prima proiezione al cinema Saint-André-des-Arts di Parigi ha intenzione di portare il film anche in Italia?

Sì certamente, l’idea mi interessa. Sto già pensando di organizzare una proiezione in Italia, paese in cui ho vissuto per diversi anni e a cui sono molto legata.

 

https://www.youtube.com/watch?v=fMWaHZE8FG0

 

Princes et Vagabonds

di Fabienne Le Houérou
immagini Fabienne Le Houérou, Yves Almecija, Alba Penza, Jean Philippe Polo
suono Yves Almecija, Fabienne Le Houérou, Alba Penza
montaggio immagine e suono Aurélie Scortica.