“L’abisso” di Davide Enia: “divina tragedia” sui morti in mare di Renata Savo

Foto di Futura Tittaferrante

Pochi giorni fa, nel quartiere romano Pigneto, l’artista e performer Fabio Saccomani ha iniziato a realizzare nell’ambito della Biennale MArteLive 2019 (S)ink, un’opera urbana di opposizione alle leggi europee sulle migrazioni, un monumento funebre alle 36.570 persone morte in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa. Una lista di nomi e “senza nome” scritta sull’asfalto, che emergerà nelle giornate di pioggia, quando l’acqua laverà il terreno. Nel frattempo, coincidenza vuole che fino al 15 dicembre in scena al Teatro India ci sia L’abisso di Davide Enia, spettacolo che ha vinto il premio Le Maschere del Teatro 2019 come Miglior interprete di monologo, nominato ai Premi Ubu 2019 nella categoria Migliore nuovo testo italiano o scrittura drammaturgica – scopriremo se vincitore lunedì 16 al Piccolo Teatro Studio Melato alle 20.30 e in diretta radiofonica su Rai Radio3 – e arrivato finalista al Premio Rete Critica 2019 nella categoria Miglior spettacolo/compagnia.
L’abisso. Una voragine, una metafora, il fondo del mare «eterna corona di gioia e spine che ogni cosa circonda» (Davide Enia, Appunti per un naufragio, Sellerio, Palermo, 2017). Cimitero di volti anonimi annegati nella disperazione. Il luogo figurato in cui capita di sprofondare impotenti, quando veniamo travolti da una malattia, dalla sofferenza fisica o morale, cercando di fronteggiare problemi molto più grandi di noi.
Davide Enia ha composto la drammaturgia de L’abisso traendola dai suoi Appunti per un naufragio, romanzo che ruota attorno al viaggio dell’autore palermitano a Lampedusa, compiuto con l’intenzione di toccare con mano la realtà che da anni accade in mezzo a due continenti, e poterla raccontare. Quest’immersione nel reale, però, non ha il sapore acerbo del documento, piuttosto, quello succoso del romanzo autobiografico. Anche sul palco, dove Enia è accompagnato dalle musiche dal vivo di Giulio Barocchieri – mai invadenti e puntuali nel restituire il crescendo di un’epicità drammatica – emerge infatti l’urgenza sentimentale del racconto, la necessità della trasmissione di un’esperienza personale che si è manifestata tra le altre assurde promesse del destino.

Foto di Futura Tittaferrante

Un intero mondo interiore ed esteriore, mentre «Davidù» era a Lampedusa, si muoveva e si trasformava. Davanti ai suoi occhi, tutti i giorni, gli sbarchi, i soccorsi, i racconti agghiaccianti dei rescue swimmers. Il corridoio di un Purgatorio dantesco che Enia, non a caso, ha scelto di non percorrere da solo, per cambiare oltre che se stesso anche qualcun altro. Così ha trascinato all’inizio del suo viaggio anche il padre, cardiologo in pensione appesantito dalla routine, raffreddato nel suo rapporto con il figlio come lo sono tanti padri che non appaiono tanto “incapaci” di esprimere l’affetto proprio di un genitore, quanto assuefatti dall’illusione dell’esserci: oggi, domani, sempre. E allora, forse anche per recuperare un po’ di quell’affetto seppellito nella figura paterna, Enia l’ha cercata e voluta accanto nella sua dolorosa avventura, ritrovando il senso caloroso di un rapporto filiale in una condivisione di sentimenti, che si riscoprono vivi attraverso la comune esperienza del tragico.
Quanti padri e figli sono morti in mare, quanti bambini sono diventati orfani durante il lungo viaggio, quanti padri, madri, hanno perduto a pochi metri di distanza la propria ragione d’esistenza e si sarebbero lasciati annegare, se non fossero stati tempestivamente salvati? Sono alcuni dei drammatici fotogrammi cui fa riferimento Enia, puntellati da pause pesanti come macigni, e che formano il caleidoscopio delle difficoltà di adempimento alla drastica «legge del mare», che il personaggio del sommozzatore conosce e spiega fin troppo bene, in una delle scene più toccanti dello spettacolo: «Se hai davanti a te tre persone che stanno andando a fondo e cinque metri più in là sta affogando una madre con un bambino, che fai? Dove vai? Chi salvi prima? (…) Il bambino è piccolissimo, la madre giovanissima. Sono lì, a cinque metri da me. E, proprio qua davanti, tre persone stanno annegando. Chi salvare, allora, se stanno andando a fondo tutti nello stesso momento? Verso chi dirigersi? Che fare? Calcolare. È tutto quello che si può fare in certe situazioni. La matematica. Tre è più di due. Tre vite sono una vita in più rispetto a due».
Nel contempo, nel racconto di Enia c’è quell’altro dolore, il dolore personale: il decorso della malattia terminale di un fratello del padre, lo zio Beppe tornato ad ammalarsi disgraziatamente di cancro. Una narrazione parallela non meno lacerante. Non semplice sfondo di questo straordinario canto epico, simile a un’Odissea o al viaggio del sommo Dante Alighieri, silenzioso scrutatore tra le anime disperate dei dannati traghettate da Caronte; ma ragione in più per scavare dentro se stessi e aprire le braccia al mistero della vita, interrogandosi sul suo senso più profondo. Profondo e oscuro, come l’abisso.

Foto di Futura Tittaferrante

L’abisso

tratto da Appunti per un naufragio
uno spettacolo di e con Davide Enia
musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri.

Teatro India, Roma, fino al 15 dicembre 2019.