Marvels: la visione dal fumetto supereroistico al cinema spielberghiano di Tommaso Cavani

È di queste settimane il fiume di polemiche che è scorso tra Martin Scorsese e i cinefili più agguerriti, da un lato, e i cinecomic e i loro fan, dall’altro. I film di supereroi, si dice, non sarebbero vero cinema, ma operazioni commerciali portate avanti con mezzi e finalità che non appartengono ormai più alla settima arte: sono altro, ma certamente non film. Non ce la sentiamo di prendere posizione all’interno della diatriba. Proponiamo invece qui un esperimento per metterla in crisi: cosa succederebbe se un regista di calibro, un innegabile auteur, tentasse di trasporre un fumetto? Non parlo di Nolan o Kenneth Branagh (si potrebbero fare moltissimi altri nomi), che già hanno messo mano al genere, bensì dei veri titani di Hollywood, dei registi da Oscar, dei registi ormai classici, di Scorsese stesso. O di qualcuno di più versatile: Steven Spielberg. E quale soggetto migliore del graphic novel Marvels? Il regista e il fumetto condividono infatti un importante traguardo nell’estetica delle rispettive arti: l’aver costruito e aver dato vita a un punto di vista che, nella finzione, osserva il proprio mondo, perché è capace di trovare gli strumenti e una via per farlo.
Lo scorso giugno si è celebrato il venticinquesimo anniversario di Marvels, scritto da Kurt Busiek e disegnato da Alex Ross, con l’uscita di venti variant cover (per altrettanti single issue tra le diverse serie della casa editrice) e di un nuovo capitolo dei due autori (intitolato Marvels Epilogue), che segna una conclusione in quell’universo. Il prossimo 18 marzo negli Stati Uniti uscirà un’edizione commemorativa dell’opera. Quando il fumetto uscì nel ’94, comportò una radicale novità nel genere, a quell’epoca in forte crisi. Nonostante il successo riscosso, la rapida ascesa del disegnatore e la sua conseguente firma su altri progetti per la rivale DC Comics, l’esperimento ebbe solo degli sporadici spin-off e non fu quasi più ripetuto.
In Marvels, il solito punto di vista è invertito: non siamo più nella testa di chi ha “superproblemi” e “grandi responsabilità” per i propri “grandi poteri”; lontano è il tentativo di rendere “umano” chi pure è elevato a un altro livello. Invece, c’è tutta la sorpresa del mito che irrompe nella vita quotidiana del fotoreporter Phil Sheldon e dei suoi concittadini newyorchesi. Può essere nella redazione del giornale, in mezzo alle opinioni dei colleghi; per una strada affollata; o più semplicemente oltre una finestra. L’eroe apparirà sempre in alto, fuori, impegnato nella propria titanica impresa, stagliandosi a tutta pagina nei dipinti che si lasciano ammirare. Lo stile pittorico di Ross gioca in questa direzione, dando alle figure la pretesa di essere quanto più somiglianti a una spettacolare fotografia, presa dal basso verso chi spicca il volo. Perché il maggiore punto di contatto tra i “super” e “noi” è proprio in quell’obiettivo, che è l’altro occhio del nostro protagonista bendato, e serve a catturare quello che per lo stupore, la paura, la testimonianza nel suo insieme («I was the witness») è troppo veloce da comprendere.

Non essendoci, nella struttura narrativa, una psicologia che venga analogicamente attribuita a priori agli umani come ai super, la tradizionale china dell’inchiostratore è una barriera che deve scomparire per permettere un altro tipo di vicinanza. Non si tratta, però, di un’assimilazione. Il ponte tra i due mondi è unicamente quella macchina fotografica che, come punto di vista sorpreso nella sua coscienza, rende “reale” a modo suo, che è anche simile al modo di noi lettori. Nessun realismo, quindi, nessuna pretesa di perfetta verosimiglianza: solo, l’aver conservato uno sguardo, congelando l’impressione raccolta nell’ardire dello scatto. Il risultato di questo processo è la realtà di Phil Sheldon, il punto d’arrivo di un viaggio che ricorda sempre anche quello di chi legge, in quanto osservatore della propria avventura, e di chi la popola: tra gli altri, i supereroi stessi, ammirati ogni mese nelle uscite su carta. Marvels espone direttamente la condizione dell’osservatore, e in questo senso ha il merito di, per dirla con le parole di Henry James, «mostrare il processo di visione».
Per questi motivi ho sempre pensato che, se mai Marvels avesse potuto trovare un regista in grado di trasformarlo in un film, questo non avrebbe potuto essere che Spielberg. Si può capire tale accostamento partendo dall’attore che avrebbe potuto interpretare il protagonista: chi meglio di un giovane, somigliante, ugualmente baffuto Richard Dreyfuss, scelto da Spielberg in tre dei suoi film tra gli anni Settanta e Ottanta? Lo studioso di squali che prima del climax scompare momentaneamente; l’everyman che comunica con gli alieni e, al momento del dunque, sta al lato a guardare, il suo volto in attesa, ricolmo della luce dello stupore; il fantasma a cui è consentito di trascorrere gli ultimi giorni sulla terra per vedere che ne sarà della moglie. Sta qui forse una buona parte del segreto che ha costruito l’atmosfera dei film di chi ha lavorato con grandi star «solo nel 20 per cento» dei suoi lavori. Nel personaggio a basso profilo, nella capacità di usare la tensione tra i più piani che in lui si intersecano: l’incerto presagio di ciò che è gigantesco e alieno, la paura che ne deriva, l’interesse, il giungere alla chiarezza, l’impossibilità di agire, il rimorso di aver sempre partecipato dall’esterno, e mai abbastanza («una persona in più»). Quella prospettiva più autenticamente nostra, di spettatori, un alone che si infiltra ovunque ci sia una scena che ci sembra così consapevole e orchestrata nei suoi movimenti, nella sua folla che si agita e assembla, ma che contiene un distacco e un vuoto intorno al quale ci si può davvero mettere insieme nella meraviglia, lo sguardo rivolto fuori. Si tratta di trovare quel protagonista neutro che, come noi, e per questo finalmente identificato con noi, «riesce a vedere».

Kurt Busiek, Alex Ross, Marvels 25th Anniversary Hardcover Edition, Marvel Entertainment, New York, 2020, pp. 504, dollari 50.