Quando “La classe” non è acqua: intervista a Fabiana Iacozzilli di Renata Savo

Foto di Piero Tauro

Reduce da molti successi di pubblico e di critica, primo su tutti il premio assegnato a Siena nell’ambito della rete In-Box, vetrina grazie alla quale sei spettacoli finalisti visionati da una giuria di operatori accedono alla possibilità di avere una discreta circuitazione su territorio nazionale nella Stagione successiva, La classe di Fabiana Iacozzilli, con le scene e le marionette di Fiammetta Mandich e con Michela Aiello, Andrei Balan, Antonia D’Amore, Francesco Meloni e Marta Meneghetti sarà in scena al Teatro Fontana di Milano dal 4 al 6 ottobre. Definito un docupuppets, un documentario teatrale per pupazzi e uomini, lo spettacolo prende spunto da frammenti autobiografici dell’autrice e regista, vertendo sul paradosso della rigidità dei sistemi educativi nelle strutture scolastiche gestite da suore. Abbiamo chiesto a Fabiana Iacozzilli di raccontarci che cosa la lega nel profondo a questo spettacolo: dove, nella vita e in sala prove, combaciano alcuni tratti del suo carattere e la storia che è riuscita a portare in scena.

Cos’è un docupuppets, una nuova definizione per un genere che senti di aver inventato? Quando hai deciso la forma che doveva appartenere a questo lavoro? 

Sicuramente non sono partita da una definizione. Mi ha mosso una domanda che rinvia al senso della memoria: quello che io ricordo è realmente quello che è accaduto? C’è stato un percorso di riscoperta, di riappropriazione del ricordo. Mi sono domandata quale dovesse essere la forma per raccontare quel ricordo e sono arrivata a formulare diverse ipotesi: mettere in scena degli interpreti bambini, degli attori che interpretano dei bambini o delle marionette. Con i bambini L’argomento avrebbe rischiato di diventare patetico o, comunque, di far prendere al lavoro una deriva che non mi interessava. Ho scelto alla fine di lavorare con delle marionette perché con la loro neutralità mi consentivano di raffreddare la materia. Il processo si è composto di queste due parti: da un lato la volontà di documentarmi e di ritrovare i miei compagni di classe e, dall’altro, il motivo che mi ha spinto a lavorare con la marionetta. Questi due filoni all’inizio viaggiavano separati ma, quando ho messo insieme la marionetta con la forma dell’intervista, lì, come un’epifania, si è palesato il docupuppets. Non avevo mai sentito questa definizione, è una parola che non credo esista, ma che descriveva bene quello che stavamo facendo.

 

Nello spettacolo emerge a un certo punto il legame tra la Fabiana rigida e inflessibile regista di professione e le vicende dell’istituto scolastico connesse al nome di Suor Lidia e alla durezza di questa suora. Sei davvero un soldato sul lavoro? Come hai fatto a comprendere questo legame, è un lavoro di analisi che hai fatto da sola su te stessa? Penso, ad esempio, all’episodio citato nello spettacolo, della performer che ha deciso durante il processo di creazione di gettare la spugna e andarsene…  

In realtà io ho messo a fuoco le incandescenze che racconto nello spettacolo proprio durante il periodo in cui lo stavamo lavorando. Si tratta di cose che probabilmente già si conoscono di se stessi ma un conto è saperle, un conto è vederle perché risaltano davanti agli occhi in modo nitido. All’inizio lo spettacolo doveva parlare di abusi sui bambini e del senso della memoria, poi è accaduta una cosa che mi succede molto spesso: parto da una domanda interiore, inizio a lavorare con un gruppo di persone e, mentre sono profondamente in ascolto della materia, accadono delle cose che mi fanno capire qual è il lavoro che stiamo facendo e che spostano di conseguenza il fulcro della creazione. La materia ti rimanda un senso forte ed è lì che comprendi dove stai andando e, questa comprensione, è sempre preceduta da un certo vuoto. In questo vuoto in cui ci trovavamo una delle performer mi ha lasciata e mi sono ritrovata di fronte a due possibilità: continuare per la strada che stavamo percorrendo oppure inserire nella drammaturgia il distacco che stavo vivendo. In fondo la suora era stata così spietata con me e una performer se ne andava perché io ero stata molto spietata con lei: non potevo non leggere questo parallelismo o non assumermi la responsabilità di metterlo all’interno del racconto scenico. Mi sono anche domandata, profondamente, se avesse senso inserire quell’episodio: la drammaturgia avrebbe imboccato un’altra strada e lo spettacolo rischiava di rimanere troppo personale. L’obiettivo è stato quello di fare del personale l’universale. E questo avviene verso la fine dello spettacolo, quando parlo di quello che la suora mi ha lasciato come “eredità” e, se vogliamo, anche come “condanna”.

Foto di Tiziana Tomasulo

 

Per quanto riguarda la forma, soprattutto visiva, Kantor è un riferimento esplicito tra le tue fonti di ispirazione. Parlaci un po’ degli altri, come I cannibali di George Tabori.

Sì, I cannibali di Tabori. All’inizio del processo di creazione stavo cercando di inserire i miei ex compagni di classe – quattro o cinque di loro – fisicamente all’interno dello spettacolo: volevo che assistessero al lavoro dal palcoscenico, e che il pubblico li vedesse nell’atto del “guardarsi”, spingendo lo spettacolo verso una sorta di rito collettivo. Questa idea partiva da Tabori. In questo testo bellissimo i figli di alcuni deportati ebrei per superare il trauma di un atto tragico che i loro padri avevano compiuto all’interno di una baracca, ovvero mangiare un loro compagno per sopravvivere, rimettono in scena quel momento. De I cannibali ero interessata alla dimensione del rito come tentativo di superamento del trauma o della colpa. Questo ulteriore piano non è poi rientrato nello spettacolo ma ne è rimasta forte la radice: il bisogno di ricreare una comunità, così come succede nel testo di Tabori, per superare quello che è successo rimettendolo in scena.

Il lavoro di drammaturgia sonora è molto interessante, sembra quasi che abbia la forma di un affastellarsi caotico di ricordi. Cosa si è voluto far emergere attraverso il lavoro sul suono?

Volevamo un suono che non provenisse da quel mondo che vediamo davanti a noi. Quella è stata l’idea di partenza: filtrare il suono. Da questa scelta sono derivate tutte le altre scelte tecniche, ovvero, microfonare e posizionare i radiomicrofoni sotto i banchi di scuola per amplificare anche suoni minuscoli perché, in questo mondo del ricordo, anche il semplice gesso sulla lavagna diventa una specie di strappo: è quel suono che risuona in ognuno di noi.

Cosa pensi che avrebbe detto Suor Lidia vedendo questo spettacolo?

Sicuramente «Ci sono degli errori!», mi ha lasciato il cruccio della perfezione, questo sì! Nello spettacolo non lo racconto ma, in questa ricerca che ho fatto, ho trovato anche un nipote della mia suora. Un uomo di sessant’anni che sono riuscita a incontrare più volte. Durante i nostri incontri mi ha chiesto una sola cosa: di non inserire il nome della suora perché in vita era stata una donna eccessivamente riservata. «Credo che non sarebbe felice di sapere che il suo nome sia sulla bocca di tutti noi!». mi ha detto. Rispetto a quella richiesta e dopo una lunga riflessione, ho scelto di lasciare il nome di Suor Lidia, forse perché sentivo di dover saldare un conto in sospeso o forse perché lei è quella persona per me, come per tutte le persone che mi hanno accompagnata in quegli anni.

Foto di Cosimo Trimboli