Morandi di Giulio Stasi: la meravigliosa vita delle cose di Katia Ippaso

Foto di Futura Tittaferrante

Nei preludi settembrini delle stagioni teatrali, gli eventi si affollano sempre di più, come se ci si dovesse togliere subito di torno la mollezza dell’estate. Diventa di conseguenza sempre più complicato scegliere l’ouverture giusta, quella capace di lanciare il nostro cuore oltre l’ostacolo, per farci dire “sì”, ma “sì”, questo mondo vale ancora la pena guardarlo e viverlo (non è in fondo questo il fine di ogni gesto artistico: portarci verso il sì, sia esso dionisiaco, nietzschiano, oppure apollineo, contemplativo, ma comunque “sì”?).
Quest’anno, però, siamo stati proprio fortunati. All’inizio è arrivata un’email che conteneva solo una locandina, ma non una di quelle opache, chiassose, arroganti, piene di facce storte, corpi urlanti, parole straniere, antri oscuri e punti esclamativi. No, questa volta la locandina era limpida, pulita, portava un solo titolo che coincideva con un nome: MORANDI. Sul fondo bianco si riportava il plastico di un ponte a spirale, che poteva anche essere fatto con i lego. Sopra la pista, qualche macchinetta giocattolo. Poi il nome dell’artista, Giulio Stasi (la dicitura esatta era: “sguardo non autorizzato di”) e quello della “driver”, Luna Romani. Dalle scarne righe che accompagnavano l’immagine, si lasciava supporre che lo spettatore avrebbe dovuto prenotare a quell’indirizzo e che poi sarebbe andato con pochi altri viaggiatori da qualche parte.
Chi sarà questo Morandi? Ci siamo chiesti. Il pittore Giorgio? Gianni Morandi, il cantante? E se invece quella costruzione giocattolo alludesse all’ingegner Morandi, quello del ponte di Genova? E che significa che ci sarà un driver? Dove ci portano? L’appuntamento era a pochi passi da piazza Giustiniani, di fronte all’entrata principale della Pelanda, uno dei luoghi che quest’anno hanno accolto Short Theatre. Ma il nostro viaggio si presentava dichiaratamente “Off” Short Theatre, non perché facesse parte di una qualche parallela rassegna Off, ma perché stava proprio fuori da ogni circuito, non aveva benedizioni, marchi né consensi, ma di questo neanche si faceva un vanto.
Avevamo già visto altri lavori di Giuli Stasi: ci sembrava che l’artista d’origine toscana e romano d’adozione tendesse a indagare in vario modo la scena del crimine (crimine esistenziale, estetico, frutto di un gesto incisivo) attraverso un suo blow-up, servendosi spesso di automobili e spazi boschivi. Ma mai come questa volta Stasi si è spinto così vicino al “corpo del delitto”, e usiamo questa espressione nella direzione di Artaud, quando ne Il teatro e il suo doppio il poeta francese scriveva, per esempio, della bellezza di una retata di polizia.
Con Morandi, tutto si scarnifica e si essenzializza. All’inizio non ci sono che quattro spettatori dentro un furgone. Poco dopo, la voce “narrante” di Stasi ci fa sapere che quello è il furgone in cui lui vive, ma che non è proprio la sua casa. Dentro ci sono alcune cose che riportano all’intimità e alla frugalità del vivere: un letto, pochi indumenti, delle casse di plastica su cui sedersi. Da quello spazio minuscolo di mondo, Giulio Stasi ha fatto esperienza di quello che significa aver bisogno dell’acqua, per lavarsi. Ma non c’è un tono miserevole, né tanto meno eroico, nel suo racconto. C’è la semplice narrazione di una vita che si è fatta nomade e povera, per cercare di togliere il superfluo e avvicinarsi all’estasi dell’incontro di strada.

Foto di Futura Tittaferrante

 

 

 

 

 

 

 

Foto di Futura Tittaferrante

 

 

 

 

 

 

 

Il tragitto lo facciamo a tende chiuse. Da fuori, arrivano solo i rumori e le voci della città. Finché il furgone non si ferma. Luna ci apre la portiera e ci invita a scendere. Ci troviamo dalle parti di San Giovanni. Giulio Stasi è sempre con noi, la sua voce in cuffia ci porta ora a “guardare”. Ma cosa? Di fronte c’è solo un vecchio parcheggio abbandonato. Eccolo, il modellino della locandina. Non è fatto con i lego. È un edificio vero. L’ha progettato Riccardo Morandi negli anni Cinquanta. Sì, proprio quel Riccardo Morandi del Ponte di Genova. Che cosa ci dobbiamo fare? Ecco, il problema è proprio questo. Non dobbiamo “farci” niente. Dobbiamo solo starci dentro. Così che saliamo, lentamente, le varie rampe. La voce ci guida portandoci ad assecondare alcune stazioni obbligate, fatte del poco e del niente. Un muro scrostato, la scritta “Vietato fumare” che ha perso alcune lettere, una macchina abbandonata da chissà quanto tempo, la luce che entra da una finestra rotta e si rifrange nel telo di plastica che il performer ha teso nello spazio, in modo da trattenere una luminescenza antica, randagia. Si arriva infine al terrazzo, lo sguardo si addentra nelle case degli altri, luoghi che possono essere anche disabitati da millenni e nei quali invece si intravede qualche segno di vita: una tenda spostata dal vento, un tavolino, un merletto.
Vita immateriale. Vita delle cose. Gli uomini e le cose, sulla stessa linea d’ombra. Nelle parole del testo, riferimenti alla vita geologica, a quello che c’è stato prima dell’arrivo dell’uomo, visioni di quello che verrà. La vita organica e le tracce di materia inorganica abbracciate in un unico suono, con le note del gruppo musicale I Cani che chiudono su immagini d’apocalisse. Ma non c’è niente di cui aver paura. Qui non si consuma il culto della morte. Non ci si pasce della propria intelligenza. Semplicemente, si guarda, si ascolta, si registra tutto ciò che passa e che resta nel tempo. Nessun riferimento puntuale al ponte di Genova. Non è questo il contesto giusto per la denuncia e la colpa. Non è però, neanche il terreno della discolpa. I morti sono i morti, e vanno rispettati e seppelliti bene. Morandi ha progettato quel ponte. E lui stesso forse sapeva che non poteva durare in eterno. L’architetto Bruno Zevi era stato il solo a saper cogliere quella componente futuristica, non funzionale, delle opere di Morandi: «Sembrano raggelate un momento prima del crollo».
Visioni, profezie, respiri, oggetti, chiarori di luce interstiziali. Alla fine tutto si raccoglie nel passo del visitatore che consegna la cuffia a Luna e torna a casa, solo. Ma c’è ora, in quella solitudine, tutta una folla di immagini, figure, fantasmi, che il gesto artistico limpido e disarmato di Stasi ha saputo convocare.

Foto di Futura Tittaferrante

Morandi

di e con Giulio Stasi
driver Luna Romani
Off Short Theatre, Roma, 8-14 settembre 2019.