Augusto. Considerazioni intorno allo “spettacolo” di Alessandro Sciarroni di Paolo Ruffini

Foto di Alice Brazzit

A distanza di qualche mese dal debutto lo “spettacolo” di Alessandro Sciarroni Augusto continua a sollevare questioni interne al lavoro e a latere dello stesso, sul senso di una pratica scenica che disegna un’idea eterodossa della coreutica, a fronte di una nostalgica storicizzazione dei processi artistici. Non a caso usiamo un termine il cui effetto orienta l’immagine che abbiamo del concetto di danza (e Augusto è il giusto grimaldello metaforico per scompaginarne la nozione, sappiamo che lo spettacolo non è mai solo uno spettacolo), perché se è vero che il linguaggio esprime una possibilità della danza quanto la possibilità della sua creazione, è altrettanto vero che il linguaggio pertiene al proprio tempo in ogni tempo storico; senza nostalgia, dunque, il linguaggio non detiene un pensiero sul mondo e sulle cose create una volta per tutte: il linguaggio è il significato e il significante, lo spazio del sensibile e quello delle domande, dell’immaginario e della politica. Bene. Le teorie pertanto, se ciò detto ha senso, le scuole, le aporie sui metodi e le esperienze, per giunta la tradizione (o le tradizioni, nello specifico della danza), sono presupposti fallati, fuorvianti, impropri (e addirittura ideologici e portatori di aneliti di potere) se legati al solo gesto d’arte, senza farli collidere col portato di quel reale capace di mettersi in crisi nella disamina del proprio tempo. Nostalgia è allora lo scranno sul quale vanno a collocarsi buona parte degli imbonitori delle materie di danza (e non solo) per riportare sul giusto binario l’esegesi e la storia. Per contro, è interessante guardare al “caso” Sciarroni quale outsider della scena, perché vede sostenitori disinvolti, un po’ come in Le mosche del capitale di Paolo Volponi, fino a ieri portatori di un posizionamento retrivo, affermazione di uno sguardo organico al sistema. Quasi che Sciarroni rappresenti il bagno rituale con cui depurare le scelte compiute prima. L’artista marchigiano è l’Osanna e il Satan, è la barra che aggredisce gli orizzonti e li riconfigura, com’è stato per la Socìetas Raffaello Sanzio, punto di approdo e di ripartenza di una riflessione sul contemporaneo (e sulla danza contemporanea). Non è determinante cogliere quanta rifrazione d’eco la sua figura o il suo lavoro mettano in circolo, e altrettanto poco interessante cercare di capire quanto sia lui stesso invece influenzato da un contesto, da una particolare stratificazione linguistica e percettiva di questo tempo storico, come da pensieri comuni condivisi anche da altri autori della scena; siamo un po’ tutti ciclicamente alla ricerca dell’estro, l’unicum, tanto meglio quando questo, di estro, viene consacrato dalla Biennale Danza di Venezia. Il Leone d’Oro alla carriera di quest’anno ha commosso, basti pensare allo straordinario discorso che Sciarroni ha tenuto in occasione della premiazione con quel ribaltamento di prospettiva fortemente politica (e dunque estetica) tanto necessaria al mondo della danza, che ha così irritato (e solleticato la pruderie dei colleghi) i molti che in quel premio non riconosco una appartenenza, una identità. Il lavoro di Sciarroni non è danza! Diciamolo una volta per tutte.

Foto di Alice Brazzit

Si ha l’impressione di avvertire un antico refrain tornato in questi anni a marcare un proprio territorio. Scrive Kwame Anthony Appiah in una recente e istruttiva pubblicazione a proposito di identità che «siamo creature claniche – formiamo cioè dei clan. Non apparteniamo soltanto al genere umano; preferiamo il nostro genere e siamo facilmente propensi a scagliarci contro chi non è come noi». Augusto è da intendersi un pretesto, ovvero un effetto che precede il testo, mentre il testo (o meglio la testualità) si compone sulla scena a partire dal paradosso drammatico della figura clownesca, riattivata proprio da quell’anticipo concettuale nella nostra memoria. Sembrerebbe viva di una forma altra rispetto alla datità dell’evento scenico, un re-re-anactment (un recupero dell’archetipo) che avviene nella testa di noi spettatori. L’Augusto del circo è ciò di cui abbiamo memoria, non importa se sbiadita, è la rivivificazione di un’esperienza ciò che conta. Non abbisogna di didascalie né di racconto. Le sue risate non contenibili come l’irreversibilità del pianto ne fanno un esercizio dell’imperfezione, un paradossale incedere situazionista che scardina il discorso, catastrofizza la relazione col mondo circostante, si espone alle improvvisazioni astratte, alla pura idea dell’essere. Per questo lo “spettacolo” di Sciarroni è prima di tutto lo stato d’animo di una condizione prelinguistica. Quel pre-testo è sostanzialmente muto. Ma in quel mutismo tutto è rivelato da subito, ancor prima che i performer comincino a correre sul palcoscenico in cerchi immaginari che andranno ad assommarsi, smembrarsi in sezioni di duetti o corse in solitaria, ogni cosa è stata già “detta” quando i performer entrati dalla platea sul palco vanno a sedersi per un tempo silenzioso carico di tensione dando le spalle al pubblico. Siamo lì per accogliere la parte di noi che ci rispecchia in quel già detto, una superficie sulla quale prendono forma i tic e le ossessioni che dominano i nostri desideri. Ancora una intenzione mossa dalla circolarità e dalla ripetizione delle azioni dove, questa volta, si incistano possibili inversioni o interferenze alla serie ipnotica dei gesti. Il movimento è apparentemente una progressione di eventi che si manifestano di fatto assolutamente indipendenti, ogni performer è l’Augusto e il suo contrario in una ramificazione di sensi del tutto diversi e uguali, direbbe Henri Bergson, con la coscienza di essere in molti e al tempo stesso singoli individui in quelle corse e incontri e risa espressive, vere, maldestre o felici, quelle urla strazianti, quella fragilità esibita sfiancando il corpo e l’attenzione dello spettatore. Lui, Sciarroni, è consapevole della nostra consapevolezza, è stato già tutto detto…, non siamo soltanto osservatori e uditori perciò, ma testimoni (anche complici) di un dato acclarato sin dall’inizio, siamo cioè il patto al di là del palco, presi in causa in una delle tante declaratorie fisiche che nullificano il fatto spettacolare, interpretativo. Siamo il recto di un verso addosso al quale si infrange il ritmo. Ma poi, il repentino cambio di rotta mosso dall’intonazione da contralto di un interprete dell’Oblivion soave da L’Incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi ci riporta al disegno rapsodico di andata e ritorno dal pianto al riso, dalla verità di uno schiaffo allo sberleffo, con naturalezza, e allora in quel già tutto detto pre-testuale si presenta una compiutezza registica inaspettata che trasforma Augusto in opera. Straordinario.

Foto di Alice Brazzit

Augusto

di Alessandro Sciarroni
con (9 performer in alternanza) Massimiliano Balduzzi, Gianmaria Borzillo, Marta Ciappina, Jordan Deschamps, Pere Jou, Benjamin Kahn, Leon Maric, Francesco Marilungo, Cian Mc Conn, Roberta Racis, Matteo Ramponi
musica Yes Soeur!
designo luci Sébastien Lefèvre
movement coaching, collaborazione drammaturgica Elena Giannotti
styling Ettore Lombardi
consulenza drammaturgica Chiara Bersani, Peggy Olislaegers, Sergio Lo Gatto
coaching yoga della risata Monica Gentile
vocal coaching Sandra Soncini
collaborazione artistica Erna Ómarsdóttir, Valdimar Jóhannsson
direzione tecnica Valeria Foti
assistenza, ricerca Damien Modolo
video, foto Alice Brazzit.

Short Theatre 2019, Teatro Argentina, Roma, 8 e 9 settembre, 2019.