Fino in fondo finché non vedi il mare di Carolina Germini

Foto di Cristina Ferraiuolo

Partecipare al Napoli Teatro Festival significa intrattenere con la città un rapporto del tutto privilegiato.
Muoversi in essa attraverso i suoi spazi teatrali è come esplorarla dall’interno. Per chi non è di Napoli, poi, l’esperienza risulta ancora più affascinante perché il Festival ci conduce in luoghi insoliti come il Palazzo Fondi. Ed è proprio all’interno di questo edificio seicentesco che la mia avventura ha avuto inizio, assistendo alla prima assoluta di La Luna di Davide Iodice in cui il tema del rifiuto è interrogato nei suoi molteplici significati: inteso sia come scarto sia come ciò che non accettiamo o ancora come ciò da cui a nostra volta siamo stati rifiutati.

Foto di Ivan Nocera

Per rendere ancor più viva quest’esperienza, Iodice ha invitato la comunità di Napoli a prendere parte al progetto, chiedendo di cedere alla compagnia un oggetto personale e raccontandone la storia.
Un ricordo traumatico del nostro passato ingombra le nostre vite e ne occupa tutto lo spazio. Così appare anche la scenografia: un luogo inospitale, dove blocchi di plastica diventano le quinte dietro cui nascondersi e da cui riaffiorare per raccontare la propria storia. In questa narrazione risiede il potere liberatorio del gesto di chi ha scelto di rifiutare una parte di sé, mostrandola ad altri. Senza il racconto che lo descrive, l’oggetto di fronte a noi apparirebbe vuoto, come lo sono tutte quelle cianfrusaglie che si trovano nell’anticamera del teatro. In questo cimitero di oggetti inanimati leggiamo: «Sono stato sulla luna, ho conquistato memoria e fortuna». Il tema della luna, che dà anche il titolo allo spettacolo, rimanda al canto XXXIV dell’Orlando Furioso, che narra la storia di Astolfo, incaricato da Dio di andare su quel satellite, dove si raccoglie tutto ciò che si perde in terra, per recuperare il senno di Orlando.

Foto di Ivan Nocera

C’è un aspetto inquisitorio in questo esperimento che Davide Iodice propone: siamo infatti costretti a interrogare noi stessi. Di quale oggetto dovremmo liberarci? In quale angolo della nostra casa si è infiltrata la parte più dolorosa del nostro passato? Sarà per questo che dallo spettacolo si esce storditi, come chi è stato accusato e ora deve difendersi. Da cosa? Dal modo in cui per anni abbiamo preferito accumulare piuttosto che fare spazio. È l’attaccamento al dolore la vera colpa. Freud lo spiega chiaramente in Al di là del principio di piacere: il paziente non vuole guarire. Così, di fronte ai rifiuti degli altri si avverte il proprio limite nel cedere la matassa nella quale siamo avvolti.
Lasciarsi alle spalle il Palazzo Fondi e i suoi rifiuti e incamminarsi verso il Teatro Stabile è stato come salvarsi da un naufragio, proteggendosi nel ventre di una balena.
Quando l’attrice Franca Abategiovanni, che dello spettacolo Teresa Zum Zum è anche regista, è entrata in scena, ero pronta a tutto. Un dialogo psicoanalitico è forse una delle esperienze più difficili da prevedere. Già dalla seconda battuta però tutto era chiaro: Teresa è senza dubbio una paziente sopra le righe, che si avvicina con curiosità alla terapia e che spera di risolvere con essa il suo dramma esistenziale, a cui ha dato il nome di Zum Zum. Teresa non ha mai fatto l’amore con nessuno ed ha una certa vergogna e riservatezza nel confessarlo. Abbassa gli occhi quando lo dice.

L’attrice interpreta magnificamente la purezza, la fragilità e il desiderio di emancipazione della protagonista, la quale dietro l’imbarazzo della sua inesperienza cela un carattere forte. Teresa sa quello che vuole e lo dimostra quando rivendica il diritto ad avere un lettino durante la seduta. Con gli altri psicoanalisti era abituata così e non capisce perché ora dovrebbe accontentarsi di una sedia. Esilaranti i suoi dialoghi con la segretaria, a dir poco “scostumata”, a detta di Teresa, e i disperati tentativi di sentire almeno una volta la voce dello psicanalista che, nella sua continua assenza, assume le sembianze di Dio. Teresa, infatti, si rivolge a lui sempre guardando in alto. La seduta ha così un aspetto religioso e ricorda l’atmosfera di una confessione o di una preghiera. L’ironia è la forza tagliente e l’anima di questo lavoro in grado di dare a tutto lo spettacolo un ritmo assolutamente perfetto.
È con Non domandarmi di me, Marta mia che si è conclusa la mia esperienza al Festival.
Da subito vengo accolta dalla recitazione oramai a me familiare dell’attrice Elena Arvigo, dopo che lo scorso marzo ho avuto modo di assistere alla trilogia, tutta al femminile, che il Teatro Torlonia di Roma le ha dedicato.
Del modo in cui dà a voce alle diverse figure, da Marguerite Duras a Sarah Kane, fino a Marta Abba, colpisce la grazia con cui le interpreta. È visibile il senso di responsabilità e il rispetto sacro con cui si avvicina a queste donne e il modo in cui è capace di restituircene il lato più oscuro e intimo.

Foto di Salvatore Pastore

Katia Ippaso, autrice del testo, mi racconta di averlo scritto in dieci giorni a Parigi.
Marta Abba esordisce come attrice nel 1922 nel dramma Il gabbiano di Čechov ma la sua vita cambierà nel 1925 quando incontrerà Luigi Pirandello, che dopo averla conosciuta, la scritturò immediatamente. Quello fu l’inizio non solo di una grande collaborazione artistica ma anche di un lungo epistolario, attraverso cui restarono in contatto fino al 1936, anno della morte del Maestro. L’intuizione del testo è quella di dare vita a questo intenso scambio con l’esperienza che Marta Abba vive nel rileggere le lettere subito dopo la morte di Pirandello. La giovane attrice quel giorno recitava a New York, al Plymouth Theatre di Broadway. È lei a dare alla fine dello spettacolo l’annuncio della morte del drammaturgo. Se in quell’occasione la notizia arrivò solo alla fine, in Non domandarmi di me, Marta mia è con questa che si apre lo spettacolo. Siamo quindi chiamati a prendere parte ad uno spazio doppiamente intimo. Condotti prima nella stanza di Marta Abba, assistiamo poi alla lettura dell’epistolario. La lettera è lo spazio intimo per eccellenza. Quando il destinatario viene meno è inevitabile che il peso delle sue parole raddoppi.
È la sua assenza e l’impossibilità di una risposta a dare a quello scambio un diverso significato.
Lo spettacolo riesce fino in fondo ad avvicinarci alla solitudine e al rimpianto che Marta Abba deve aver provato in quelle ore. L’Arvigo è vera fino in fondo nella sua arte e nel suo lavoro, tanto che quando la raggiungo per un’intervista a fine spettacolo, sta ancora raccogliendo le lettere. Per un momento, vedendola con tutti quei fogli scritti tra le mani, ho ancora l’impressione che sia Marta Abba a parlare.
Il Napoli Teatro Festival però non è solo teatro. È un’esperienza totalizzante. Si ha l’impressione di continuare a farne parte anche quando si attraversa Napoli. Questa città, penso, si spiega da sola. Non è possibile cercare strumenti estranei ad essa per provare a definirla. Lo capisco mentre Irene, che qui è nata e cresciuta, mi accompagna nei suoi vicoli. Lei sa come muoversi e ha lo stupore di chi rivede la propria città negli occhi di un altro. Occasioni come il Dopofestival nel cuore di Palazzo Reale permettono di incontrare e confrontarsi con il motore di questa XII edizione, ovvero i responsabili dell’ufficio stampa e della comunicazione, tra cui Renata Savo e Alessandra Cusani, che lavorano con passione e professionalità.
È una Napoli viva e colta quella che ho respirato, una Napoli che ha molto da raccontare e il teatro è senz’altro una delle meravigliose forme attraverso cui riesce a farlo.
Una Napoli capace di mettere in comunicazione il Festival con altre iniziative. Con un biglietto di uno spettacolo infatti è stato possibile visitare la meravigliosa mostra Caravaggio Napoli al museo di Capodimonte e lo stesso museo godendo di una riduzione.
Una Napoli in cui è possibile perdersi e ritrovarsi grazie a un passante che per indicarti la strada ti risponde: «Tutto dritto fino in fondo finché non vedi il mare».

La Luna

ideazione, drammaturgia e regia Davide Iodice
versi Damiano Rossi
training e studi sul movimento Fabrizio Varriale
spazio scenico e maschera Tiziano Fario
costruzioni scenotecniche Luciano Di Rosa
costumi Daniela Salernitano
assistente ai costumi Ilaria Barbato
luce e suono Antonio Minichini
allestimento Mattia di Mauro
con Francesca Romana Bergamo, Alice Conti, Fabio Faliero, Biagio Musella, Annamaria Palomba, Damiano Rossi, Ilaria Scarano, Fabrizio Varriale.

Napoli Teatro Festival, Palazzo Fondi, Napoli, 12-14 luglio 2019.

Teresa Zum Zum

regia e interpretazione Franca Abategiovanni
aiuto regia Iolanda Salvato
progetto luci Nadia Baldi
tecnico luci Desideria Angeloni.

Napoli Teatro Festival, Galleria Toledo, Napoli, 12 luglio 2019.

Non domandarmi di me, Marta mia

di Katia Ippaso
regia Arturto Armone Caruso
con Elena Arvigo
musiche originali Mariafausta
scene Francesco Ghisu
disegno luci Giuseppe Filipponio.

Napoli Teatro Festival, Sala Assoli, Napoli, 12-13 luglio 2019.