Archeologia del gesto: Petruška di Virgilio Sieni di Paolo Ruffini

Foto di Giuseppe Di Stefano

È una modalità ricorrente in Virgilio Sieni quella di scomporre o assommare il “senso” di un tema o di una matrice (storica) di riferimento, per ridefinire lo stesso codice della danza in un corpo o in un multiplo di quel corpo, in un gesto reiterato o in una amplificazione di quella stessa reiterazione. Persino nei lavori dal respiro corale e dalla tensione esperienziale e partecipata, dove i protagonisti scenici si fanno carico con tutto il loro portato personale di “mettere in evidenza” uno spazio liminale allo spettatore, il “discorso” danzato di Sieni trova in quella scomposizione o raggrumo di intenzioni un nuovo posizionamento del gesto all’interno di un quadro sapiente seppure destrutturato. È il quadro linguisticamente orientato verso un altrove pre-teatrale o pre-testuale che fa della sua danza un’utopia simile a una tela policroma di Kandinsky. Oggi Sieni approda inevitabilmente (considerato il suo percorso sempre sul crinale di una concept opera di derivazione percettiva) al totem visionario e simbolico di Petruška, caposaldo di un modernismo artistico generato dalla genialità di Fokine-Stravinskij-Benois, archetipo del balletto d’arte e allo stesso tempo di una gestualità post espressionista sempre collegata alla scrittura novecentesca e ai suoi fantasmi (pensiamo allo schizo di Deleuze o alle conseguenze postmoderne del cosiddetto teatro immagine). Petruška come marionetta cosciente, come corpo che attraversa le geometrie dello spazio e che da questo si lascia tradurre, corpo osmotico o chair per dirla con Merleau-Ponty, ispirato e “trapassato” dal dover assolvere un ruolo e il voler essere altro, è una figura emblematica che oscilla tra lo schematismo ideologico di Craig e un sentimento interiore malinconico, desiderante, persino tragico, e per questo rivoluzionaria. Figura che Sieni affronta ancora una volta ritagliando un tassello dal quadro, mettendo a fuoco un aspetto, un intarsio narrativo decisamente coerente con l’originale (nella sua effervescenza psichica, ad esempio) riscrivendo la partitura. Apre lo spettacolo una prima parte, una sorta di preludio in cui un velatino sul proscenio nasconde i corpi generando ombre, pronte queste ad annunciarsi in forme “offuscate” dai contrasti di luce, ritratte nel tentativo di superare la “soglia” di quello spazio interiore, appunto. Chukrum sulla base sonora di Giacinto Scelsi ha l’effetto di una dissolvenza generatrice, una temperatura opacizzata già frequentata dal coreografo (Tristi tropici tra gli altri) e immortalata a suo tempo da Pathosformel con La timidezza delle ossa.

Foto di Giuseppe Di Stefano

 

 

 

 

 

 

 

Foto di Rocco Casaluci

 

 

 

 

 

 

 

 Quel tentativo di una materializzazione del corpo si rivela in una asciuttezza ed essenzialità quasi fantasmatica, un atto della percezione (come lo stesso Sieni ricerca, si diceva) ma al contempo espressione del respiro interno al corpus dei danzatori, che qui sembrano assolvere al principio di dissolvimento e insieme di unicità del gesto danzato dove il tutto è in un unico segno ma contemporaneamente è disseminato in piccoli spossessamenti di quella stessa rifrazione del gesto. Un preludio, dunque, che annuncia l’opera e l’anti-opera (Agamben docet) in cui tutto «accade e decade». Petruška, invece, ha l’ariosità di una suite che permette all’arcaicità sciamanica, di cui il coreografo è portatore sano, di posporre il gesto in una cornice metafisica che trascende la didascalia e le narrazioni del mito. Petruška riacquista un incipit libertario svelato, anzi moltiplicato come eco della figura, tanti Petruška sono lì a disarticolare un movimento dell’uno frazionato e raggrumato in una pittura di sentimenti e posture figurali dei tanti. Cosa fa Sieni? Interviene sulla soglia delle trasparenze annunciata nella prima parte per lanciarsi in un metafora iniziatica, ancora una volta rituale, laddove il rito, sul filo del gioco e della tragedia (giustamente indicato dallo stesso autore), ci “racconta” una geometria emozionale di espansività fisiche e per certi versi istrioniche. Molte le risonanze possibili, come di un corpo alla Arlecchino, topos post decadente e simulacro amletico ricorrente nell’immaginario del coreografo, o ancora Pinocchio o le ossessioni materiche picassiane in una imperitura ritrattistica di Pulcinella. Delimitato lo spazio da tendaggi fluidi in un cromatismo pastello, i danzatori ordiscono passaggi e intrecci nella verticalizzazione come in movenze a terra dove, in virtù di questo piano visivo, il corpo-carne sussume un carattere di vita ispessita dall’esperienza lì posta. La marionetta è in tutti i corpi esposti e in quei corpi Sieni trova ancora una volta l’archeologia del (suo) gesto, che è espressione di una compattezza e una sinuosità efficaci (con danzatori eccellenti). E ancora una volta la scena di Sieni incarna un eros sul viale del tramonto (come direbbe Billy Wilder) che prelude una fine; gaiezza, gioventù, fierezza dell’esibizione che mostrano la penombra di un gesto rivolto all’indietro. Quanti Canti marini o funamboli o visitazioni sono depositati nell’archivio di questo Petruška, quanta natura delle cose tesse un macramè di intarsi e sopravvivenze linguistiche, quanto Sieni è adagiato comodamente in questo Sieni, in una bellezza alimentata negli anni.

Foto di Rocco Casaluci

 Petruška

coreografia e spazio Virgilio Sieni
musica Igor Stravinskij
interpreti Jari Boldrini, Ramona Caia, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Giulia Mureddu e Andrea Palumbo
luci Mattia Bagnoli
costumi Elena Bianchini.

Teatro Argentina, Roma, 14 giugno 2019.