Aria e terra in un cerchio che si compie di Maria Francesca Stancapiano

Foto di Melissa Ianniello

«Noi selezioniamo ciò da cui ci dichiariamo determinati, noi ci presentiamo come i continuatori di coloro che abbiamo reso nostri predecessori». (Pouillon, 1975)

Cosa sopravvive della memoria di un popolo, quali le singole tradizioni culturali tanto da riconoscerne l’identità in un’azione, in un canto, in un colore? La memoria stessa nella ripetizione, all’interno di un rito che abbia la funzione di reincarnare quel mondo, costruendone le funzionalità semantiche per scoprire l’ordine sociale o la riproduzione dello stesso.Per questo, dunque, si fa teatro: non solo perché si ha qualcosa da dire, ma anche perché si ha qualcosa da ricordare, da rievocare in una eco di un tempo che passa.
È poi necessario che la rievocazione di questo avvenga sempre nello stesso luogo? No, se l’itinerario da ripercorrere per giustificarne l’identità è lo stesso. Pensiamo ai matrimoni che si svolgono in luoghi aperti; ai battesimi fuori dalle chiese; alle cene: sono, tutti, comunque un rito. Pensiamo, dunque, a ogni singola azione che caratterizza il nostro essere, la nostra memoria: essa altro non è che la trasposizione in un tempo diverso del nostro patrimonio genetico, della nostra tradizione, di cui ne siamo figli.
“Figli” è la definizione cardine, perché il figlio è un prodotto di “carne” altrui: di una madre che ha partorito e, ancora prima, di un uomo che ha seminato. Di una terra che ha permesso di germogliare nuovi frutti, di acqua che ha irrigato i semi. Tutto rientra in un “prima” da ricordare, necessariamente, senza il quale, altrimenti, non saremmo.
«Noi ci presentiamo come i continuatori di coloro che abbiamo reso nostri predecessori», diceva Pouillon, etnografo francese. Noi, quindi, siamo la testimonianza di ciò che ci ha preceduto. A noi va l’onere (e l’onore) di fermarci e di ricordare. Così, può compiersi allora la magia del rito, un insieme di gesti, di parole e di oggetti ordinati da una realtà preesistente, da una comunità che riecheggia la memoria di quella stessa comunità.
Essere attori è come essere dei sacerdoti che testimoniano parole, gesta di tempi che nel concreto non possiamo più toccare, ma che possiamo immaginare tramite celebrazioni.
L’ottava edizione della manifestazione PerformAzioni, ideata nel 2011 dalla compagnia Instabili Vaganti (composta da Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, si vedano a tale proposito per maggiori approfondimenti l’intervista di Renata Savo  e la mia pubblicate su Liminateatri.it), il 5 giugno ha presentato uno spettacolo che è la sintesi di quanto introdotto all’inizio: Il Rito – Stracci della Memoria articolato in tre “capitoli”: La memoria del corpo/ La memoria della carne/ Il canto dell’assenza. Si tratta di un lavoro di eredità di tanti viaggi tra Messico, Corea del Sud, Polonia, Cina e di tante culture da cui i due performer hanno attinto usi e costumi differenti, fondendoli, poi, in un linguaggio universale: quello della memoria, appunto.
Il tutto si svolge presso l’Oratorio San Filippo Neri di Bologna, un affascinante contenitore che fu bombardato durante la Seconda Guerra Mondiale. Furono distrutti il tetto, le volte, la cupola e il lato destro dell’aula e dell’abside. Un intervento di restauro fu realizzato dal 1948 al 1953 dal soprintendente Barbacci, che ricostruì colonne in cemento armato e tamponamenti in mattoni, rifece il tetto con capriate lignee, ma demolì il pavimento e l’interrato.  Si tratta, a tutti gli effetti, di un site-specific, un “luogo non-luogo”, distrutto e ricostruito nel tempo a cui Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola decidono di riconsegnare vita e respiro.

Foto di Melissa Ianniello

Lo spettatore entra avvolto dal buio. Mentre cammina per prendere posto, compie egli stesso il rito del silenzio e della comunione. Intanto, Riccardo Nanni, il musicista che ha lavorato a stretto contatto con i due performer per tradurre in musica e suoni la loro poetica, fa vibrare, in tonalità grave, un organo in maniera continua. Dall’oscurità, avanza lentamente l’ombra di un uomo che, man mano, si materializza in un corpo incappucciato e curvo. Regge una candela e pronuncia ripetutamente, come una litania o una preghiera durante una processione, «Possano le ossa mie restare intatte nel fodero di carni compatte, fino all’ora rimasta intatte in quel corpo che muore si dibatte in cui la pelle come vetro per l’anima traspare”. Si tratta di Nicola Pianzola, il quale – con grande rispetto – raggiunge il cerchio al centro della scena posizionato esattamente sotto il soffitto bombardato nel 1945. Si spoglia del manto nero, mentre – con passi lenti, evocativi anch’essi di una processione – avanza una sposa, simbolo della verginità, dell’inizio di un mondo da costruire, della purezza. Con un cero tra le mani, la donna accenderà cinque candele, posizionandole intorno al cerchio. È Anna Dora Dorno che canta, rivolgendo la sua voce verso l’alto dello spazio. I due performer mi sembrano subito compensarsi. Nicola Pianzola personifica la terra con i suoi movimenti delicati e composti nello spazio; con la sua maestria nel muovere il piede a terra, tenendo in equilibrio l’intero corpo e raccontando, con l’arte performativa storie che non necessitano di troppe parole. Anna Dora, invece, è l’aria, il suono che riempie lo spazio, il canto popolare, gutturale, emesso con strazio e, alla fine, con dolcezza, con un fare quasi materno, è una Madonna composta nel dolore.
Penso subito a quello che Grotowski nel suo Per un teatro povero, annotava nel 1968: «I piedi sono il centro dell’espressività e comunicano le loro reazioni al resto del corpo». In tutti e tre i capitoli raccontati dai due attori, non si può fare a meno di notare proprio il movimento dei piedi, arrivando alla conclusione che Nicola Pianzola e Anna Dora Dorno hanno alle spalle una lunga e rigorosa formazione in cui si intrecciano studio e disciplina, oltre all’osservazione attenta di altre culture che li ha portati ne Il Rito a muoversi nello spazio con leggerezza, equilibrio, precisione ed energia.
Così, terra e aria, hanno riempito quel site-specific pieno di cicatrici e hanno dato vita ai tre racconti, accompagnati da video proiezioni “didascaliche”: nella prima vi è una sposa che attraversa un cimitero cercando invano qualcosa o qualcuno e tenendo stretto tra le mani del riso, elemento presente anche in scena e caro alla compagnia, che ha potuto approfondirne il significato simbolico (il richiamo alla vita) nella Corea del Sud; nella seconda la sposa “plasma” la carne. Il rosso è il colore predominante nello spazio della performance. La donna si è spogliata dell’abito nuziale e indossa una sottoveste rossa: denuncia l’assenza di acqua in un contesto in cui non si può più generare vita. «Qui non c’è acqua ma solo roccia». (La frase viene pronunciata da Anna Dora Dorno in italiano e da Nicola Pianzola in inglese). Mentre scorrono le immagini video, l’attore si contorce in spasmi muscolari che ricordano quelli delle convulsioni, ed è immediato il messaggio della sofferenza: sentirsi avvinghiati in una gabbia dalla quale non si riesce ad uscire.
Ricordare il dolore è necessario. Nello specifico, si vuole ricordare l’eccidio compiuto dalle truppe nazifasciste tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 attorno a Monte Sole, nei territori di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno. Si trattò di una vera e propria carneficina (nota comunemente come la “Strage di Marzabotto”) dove morirono più di mille persone – in massima parte donne, vecchi e bambini – e durante la quale vennero distrutte case, chiese, scuole, strade.
Nella terza e ultima video proiezione, la donna sposa è vedova e cammina su degli scogli. Immediato il ricordo delle fotografie di donne in lutto del Sud e il richiamo a Sud e magia di Ernesto de Martino.
Nello stesso momento, Anna Dora indossa un velo nero e lentamente saluta il cerchio per ergersi su un matroneo sopra la navata destra della chiesa. Da lì, torna a cantare una nenia soave che avvolge e commuove lo spettatore. La voce si erge di nuovo verso l’alto, mentre Nicola Pianzola pronuncia in dialetto bolognese quello che un anziano potrebbe dire nell’ultima fase della sua vita: «Se proprio devo morire, muoio… Spetemu». E lo vediamo l’anziano. Curvo, raccolto in spallucce, umano e semplice. Buio. Rimangono in scena soltanto degli “stracci di una memoria” da ricordare: un abito da sposa, una sottoveste rossa e un mantello nero.
Il Rito è uno spettacolo carico di significato e significante, di storia del teatro, in particolare dell’antropologia teatrale, facile alla comprensione e affascinante nella visione. L’energia si muove in scena riempita da una virtualità operativa pre-espressiva in un contesto dove all’attore è permesso di tenere l’attenzione dello spettatore prima ancora di trasmettere qualsiasi messaggio. I due performer non recitano, ma cercano di “emulare” segni per trasmettere semplicemente significati, diretti e percepibili a tutti. Il Rito è uno spettacolo che scava a fondo, senza danneggiare la storia, senza alterarla, ma soltanto riconsegnandola pura e candida in un canto e in un codice gestuale “pulito”. Aria e terra, Anna Dora e Nicola altro non sono che i figli di una natura che persevera nel tempo. Figli che lasciano, a loro volta, tracce.

Foto di Melissa Ianniello

Il Rito – Stracci della Memoria

regia e drammaturgia Anna Dora Dorno
performer Anna Dora Dorno, Nicola Pianzola
musiche originali eseguite dal vivo Riccardo Nanni.

PerformAzioni 2019, Oratorio San Filippo Neri, Bologna, 5 giugno 2019.